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Illustrazione di Roberto Melis

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Si avvicina il momento della verità: il momento in cui, mettendo da parte ideologie e gelosie, un Governo di unità nazionale dovrà metter giù un serrato cronoprogramma per l’utilizzo dei fondi europei NextGen-EU. Le linee-guida sono già state date in sede europea, e fra queste forse il risalto maggiore è quello del contrasto ai divari territoriali, un contrasto essenziale per realizzare quel programma di ‘coesione sociale’ perseguito da Mario Draghi. La famosa ‘questione meridionale’, che assilla governanti e governati dall’unità d’Italia a oggi, va allora a esser risolta? Sì e no.

Sì, perché molti dei problemi del Mezzogiorno possono essere avviati a soluzione da più risorse. Questa affermazione dispiacerà a quanti siano convinti che i problemi del Sud non sono dovuti a scarsezza di risorse, ma a carenze di classe dirigente e – visto che ogni area ha la classe dirigente che si merita – a carenze culturali e quasi antropologiche degli abitanti del Mezzogiorno. Sarà, ma, visto che, come si documenterà ampiamente qui sotto, la scarsezza di risorse c’è stata (il Centro-Nord ha beneficiato per decenni di più spesa pubblica pro-capite rispetto al Sud), cominciamo a destinare più risorse alla parte più povera dell’Italia, e vediamo cosa succede.

No, perché è vero che la classe dirigente del Sud lascia molto a desiderare, e ci vorrà tempo – un tempo maggiore dell’orizzonte di spesa per i fondi europei – prima che questa classe dirigente migliori di tempra e di conoscenza. C’è un’altra dimensione del divario territoriale, utile per disperdere un altro mito: il mito che il contrasto fra Nord e Sud sia un amaro tiro alla fune, volto ad accaparrarsi una fetta maggiore della torta del reddito della penisola. Basta allargare lo sguardo a un altro divario, il divario Italia-Europa. Da vent’anni e passa il nostro Paese cresce meno che il resto dell’Eurozona. Sono legati i due divari? Sì, perché l’Italia ha lasciato il Sud languire: il Mezzogiorno è un giacimento di crescita potenziale ma vanghe e macchinari necessari a sfruttare questo giacimento sono dormienti da anni. Il Sud è stato una palla al piede della crescita italiana e l’Italia è diventata una palla al piede della crescita europea. Non possiamo più aspettare prima di porre la ‘questione italiana’ (che tale è la questione meridionale in salsa nazionale) al centro dei programmi di ripresa. Una grande stagione di investimenti infrastrutturali, centrati sul Sud, è oggi una precondizione per far uscire l’Italia dal disperante stallo di crescita in cui si dibatte da decenni. Di nuovo, non è una contrapposizone Nord-Sud. Il mercato interno del Sud può essere la gallina dalle uova d’oro del Nord. La priorità agli investimenti nel Mezzogiorno è una soluzione ‘win-win’ per l’Italia intera.

Nell’ottica einaudiana di ‘conoscere per deliberare’, elenchiamo qui di seguito alcuni cruciali ‘divari del divario’. Guardiamo a tre dualismi, in termini di capitale umano e di capitale fisico: scuola, sanità e infrastrutture.

Cominciamo con la SCUOLA. Scrisse Pietro Calamandrei: “Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Un miracolo che è tanto più importante per un Paese come l’Italia: vista nella tela dei secoli, lunghe e alterne dominazioni straniere hanno forgiato nella Penisola una diffidenza profonda fra cittadini e Stato. Quest’ultimo, con la sua soffocante burocrazia, considera i cittadini come sudditi. E il reticolo delle regole soffoca, appunto, senza grandi risultati: come disse Riccardo Bacchelli nel «Mulino del Po», le regole intrusive dello Stato erano (e sono ancora) «vessatorie per i galantuomini quanto impotenti per i furfanti». E i cittadini reciprocano difendendosene, o con comportamenti elusivi – vedi l’evasione fiscale – o con amara rassegnazione (‘Franza o Spagna purché se magna’). Di questo ‘miracolo’ della scuola il Mezzogiorno, dove quella diffidenza è più profonda che altrove, ne ha un grande bisogno. Ma tutti i dati mostrano che le risorse che lo Stato destina all’istruzione nel Mezzogiorno sono più magre che altrove. E i risultati si vedono – vedi tabella (Fig. 1) in fondo all’articolo – nei tassi di scolarizzazione.

Per quanto riguarda la fascia di età 25-64 anni, la scolarizzazione a livello di istruzione secondaria era ancora, nel 2019, molto più alta nel Centro-Nord rispetto al Sud. Le cose sono migliorate nella fascia di età più giovane (25-34 anni) dove i tassi di scolarizzazione sono molto simili. Ma nell’istruzione terziaria – essenziale adesso che l’economia è soprattutto ‘economia della conoscenza’ – il divario non solo rimane, ma si aggrava, nel confronto fra il 2008 e il 2019. Per la variabile cruciale della spesa in conto capitale per l’istruzione, i dati più recenti (2018, basati sui conti pubblici territoriali del Settore pubblico allargato) ci dicono che, in termini di euro pro-capite costanti, sono stati spesi 74 euro nel Centro-Nord e 46 euro nel Mezzogiorno (medie dei dati regionali ponderate con il numero di abitanti).

Nei dati più recenti, anche le statistiche sulla percentuale di giovani che abbandonano prematuramente gli studi sono sconfortanti, come già documentato (vedi il «Quotidiano del Sud» del 27 dicembre 2020). I dati per il Mezzogiorno sono ben al di là di quelli del Centro-Nord, e sistematicamente ben superiori a quelli del ‘Target Europa 2020’. Nel 2019 in Italia ancora quasi 570 mila giovani, di cui 290 mila nel Mezzogiorno, pur avendo al massimo la licenza media, abbandonano il sistema di istruzione e formazione professionale. Come scrisse Don Lorenzo Milani: “Se si perdono i ragazzi più difficili, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Insomma, la scuola non è uguale per tutti. Il riscatto del Mezzogiorno deve partire dal sistema di istruzione, un ‘cantiere’ civico ed educativo che è il più importante volano per superare storici e umilianti divari. Il Centro-Nord ha, per la scuola, più trasporti, mense e progetti educativi rispetto al Sud. E la già menzionata differenza negli investimenti per le scuole fa sì che, come recita l’ultimo Rapporto Svimez, il «patrimonio edilizio scolastico diffuso, al Centro e nel Settentrione è mediamente più controllato, sicuro e manutenuto di quello diffuso nel Meridione e nelle Isole». I bassi tassi di scolarizzazione al Sud «incidono irreversibilmente sui processi di accumulazione di capitale umano e, nel lungo periodo, sui processi di crescita economica del Paese».

Passiamo alla SANITÀ. La diseguaglianza nelle dotazioni di “infrastrutture sanitarie” è venuta tragicamente alla luce proprio nel momento in cui l’Italia era colpita da una pandemia senza precedenti. Il grafico (Fig. 2) mostra quanta disparità vi sia, fra Nord e Sud, nel volume di risorse (pro-capite) destinate alla sanità. Dall’inizio del secolo al 2018 questo volume complessivo è fortunatamente cresciuto, ma gli abitanti del Mezzogiorno – evidentemente figli di un dio minore – hanno continuato a riceverne poco più della metà di quanto destinato al Centro-Nord. E l’altro grafico (Fig. 3) mostra come, a partire da un livello già penalizzante per il Sud, la spesa reale primaria per la sanità sia andata crescendo molto meno nel Mezzogiorno rispetto alle aree più ricche del Paese, con ciò aumentando ulteriormente il divario.

Certamente, c’è un problema di qualità e non solo di quantità. La spesa per la sanità può essere utilizzata con maggiore o minore efficienza. Tutto questo è vero, ma è anche vero che, come diceva Kruscev ai tempi della guerra fredda (riferendosi ai numeri delle testate nucleari), “la quantità ha una qualità tutta sua”. E, per attutire le diseguaglianze nelle risorse per la sanità, bisogna cominciare col distribuirle in modo più equo. In Italia i posti letto in degenza ordinaria per 1.000 abitanti sono, nel 2018, 3,14 come sintesi di 3,33 nel Centro-Nord e 2,79 nel Mezzogiorno. C’è molto da fare, insomma, per soddisfare a quell’elementare principio di equità che vuole, per tutti i cittadini, senza distinzione «di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3 della Costituzione) un eguale accesso alle cure sanitarie.

Dietro tutta questa ingiustizia c’è la mancata adozione dei Lep, i Livelli essenziali di prestazioni. Se si vuole dare ‘pari dignità’ ai cittadini, bisogna che i servizi pubblici assicurino a tutti un minimo essenziale (per esempio, in termini di letti di ospedale, addetti ai servizi sanitari, metri quadrati di spazio scolastico, posti in asili nido… il tutto espresso per 100mila abitanti). Torna a onore del legislatore di aver legiferato, almeno dieci anni fa, questi Lep; e torna a disonore di Parlamenti e Governi il fatto di non averli mai realmente introdotti da dieci anni a questa parte. A livello di Comuni c’è un pallido e parziale rimedio all’assenza dei Lep, il Fondo di perequazione. Ma a livello regionale non c’è niente. E, in assenza dei Lep, si è continuato a usare la cosiddetta ‘spesa storica’ per erogare le risorse: prendendo cioè a base di partenza una situazione iniqua, si continua ad allargare il solco fra Nord e Sud. Si crea un circolo vizioso: le minori risorse destinate al Mezzogiorno indeboliscono l’economia e questa debolezza lascia spazio a corruzione e criminalità organizzata. Questi secolari difetti vengono presi ad argomento per giustificare la minore spesa pubblica per il Mezzogiorno: tanto, poi quei soldi sono spesi male… Per uscire da questa triste situazione bisogna cominciare col definire i Lep: questa è la base dell’edificio per una vera azione di coesione territoriale. Ecco una prima linea di azione per il Piano di riforme che l’Europa chiede all’Italia.

Da ultimo, ma non in ordine di importanza, veniamo alle INFRASTRUTTURE. Una meritoria elaborazione della Svimez costruisce un indice sintetico della dotazione infrastrutturale complessiva, che viene elaborato per le singole ragioni meridionali, oltre che per le ripartizioni (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud, Isole). La tabella (Fig. 4) mostra, impietosamente, come le dotazioni infrastrutturali siano (colpevolmente) più basse nel Mezzogiorno. Eppure, si tratta di un reticolo su cui poggia l’economia intera di un’area. Il solito proverbio cinese dice: “se volete creare ricchezza, costruite una strada”. E si potrebbe aggiungere: costruite un ponte, costruite un porto, costruite un argine, una ferrovia, un aeroporto, un interporto, un terminale intermodale, bonificate, edificate… Per produrre, non basta una fabbrica: bisogna portare materie prime e prodotti finiti dal punto A al punto B, nel modo più economico e più facile possibile, bisogna ridurre i dissesti idrogeologici, investire sul rischio sismico, e così via. “Datemi una leva e vi solleverò il mondo”, disse Archimede. Più modestamente, quella parte d’Italia in cui visse Archimede potrebbe dire: “datemi le infrastrutture e solleverò il tasso di crescita”. Tutte le reti, le opere e i nodi descritti nella tabella sono stati collassati in un indice impietoso: facendo l’Italia = 100 il Centro/Nord è a quota 139,6 e il Mezzogiorno a 51,1. Questa non è solo un’ingiustizia; è anche un suicidio economico per l’Italia tutta.

Il grafico (Fig. 5) mostra l’andamento delle spese in opere pubbliche – in volume – negli ultimi cinquant’anni. Un’osservazione si impone: fin verso il 1990, i fondi spesi, al Nord e al Sud, non erano molto differenti (anzi, in euro per abitante, erano più elevati al Sud). Ma dal 1990 in poi si assiste a una divaricazione; e, guarda caso, è proprio quello il momento in cui inizia la stagnazione italiana e va crescendo il divario con l’Europa. È come se l’Italia avesse rinunciato a sfruttare quel giacimento di crescita potenziale che si trovava (e si trova) sotto al Garigliano…


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