La Corte dei conti
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Che non si sia fatto molto per «ricucire» il Paese, mettere fine allo scippo nei confronti del Sud e superare finalmente il criterio della spesa storica, il jolly per le Regioni del Nord, lo mette nero su bianco la Corte dei conti: «La riflessione sul finanziamento dei livelli di governo sub-centrali non dovrebbe prescindere da ciò che le risorse debbono finanziare. Su questo tema, il processo di decentramento italiano ha subìto diverse interruzioni.
Dal lato delle funzioni fondamentali delle Regioni, non si è ancora pervenuti ad una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni diverse da quella sanitaria, e di conseguenza non è ancora definito il percorso di superamento del criterio della spesa storica, né l’assetto complessivo del sistema di finanziamento».
GIOCO DELLE TRE CARTE
Insomma, il gioco delle tre carte prosegue e la situazione potrebbe persino peggiorare se non si interviene: «Le recenti istanze di regionalismo differenziato – evidenziano i giudici contabili – rendono potenzialmente ancora più problematica la definizione di un quadro stabile di federalismo simmetrico».
L’allarme è riportato a pagina 151 del “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”, nel paragrafo dedicato alla “Finanza degli enti territoriali: criticità e prospettive”. Il sottofinanziamento non riguarda solo le Regioni del Sud ma anche i Comuni: «Anche dal lato comunale – scrivono ancora i magistrati – appare fermo il processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, e molta incertezza, negli anni, si è manifestata sul ruolo di specifiche fonti di finanziamento, con particolare riferimento ai prelievi di tipo immobiliare.
Appaiono, inoltre, piuttosto incerti i meccanismi perequativi finora predisposti, sia per ciò che riguarda le modalità di distribuzione, sia per ciò che concerne l’estensione della perequazione dei livelli essenziali e delle capacità fiscali”.
La controprova di quanto scrive la Corte dei conti è data dai numeri: se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a testa), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite). Catanzaro (15 milioni, 168 euro pro capite), Bari (53 milioni, 166 euro pro capite). Ma il Comune che perde di più in termini assoluti è Napoli (159 milioni, 164 euro pro capite).
LO SCIPPO DI RISORSE
Quasi 12 anni dopo la legge Calderoli sul federalismo fiscale, gli effetti sono quindi devastanti per il Sud: da un lato la mancata applicazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni introdotti dalla riforma del titolo V della Costituzione ma del tutto ignorati; e dall’altro il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni, che altro non fa che ricalcare la vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno.
Uno scippo continuo di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud. Il calcolo dei fabbisogni standard è il vero problema. La Regione Puglia, nel 2016, per garantire agli oltre 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più.
E’ quanto emerge consultando il database di OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali, un’iniziativa di trasparenza promossa dal ministero dell’Economia e delle finanze. Le Regioni del Sud, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%.
Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma.
LO SCARTO NEGATIVO
Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Insomma, da una parte c’è un’area dell’Italia (il Nord) che riesce a incassare maggiori trasferimenti statali e, di conseguenza, può spendere e spandere, offrendo ai propri cittadini servizi efficienti e superiori alla media; dall’altra parte c’è un’altra zona del Paese (il Sud) che riceve meno soldi da Roma e deve fare le nozze con i fichi secchi.
Anche la spesa per investimenti in sanità è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4, la Toscana 77, il Veneto 61,3; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2, il Molise 24,2, il Lazio 22,3, l’Abruzzo 33.
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