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Il Recovery Fund, di cui abbiamo letto nottetempo un’ennesima e speriamo ultima versione, richiama anche nel nome quel programma che nel Dopoguerra venne lanciato per uscire dalle distruzioni belliche.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale i vincitori trattarono i vinti come da sempre si trattavano gli sconfitti, addossando loro tutti i costi della guerra e questo portò al disastro economico e politico della Germania, infragilì la già debole democrazia ed aprì la strada al Nazismo.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i vincitori, imparata la lezione, misero in campo un gigantesco piano di aiuti per l’Europa, che si chiamò European Recovery Plan – il famoso Piano Marshall- che obbligò i governi europei ad unirsi, dando vita all’OECE- l’Organizzazione economica degli stati europei che fu matrice della stessa unione europea.

Quell’aiuto americano però obbligava i paesi europei ad assumere alcuni impegni di fondo riguardanti le modalità stesse di intervento per sostenere il rilancio dopo l’emergenza.

In un quadro politico, che divenne rapidamente di estrema contrapposizione fra le stesse forze che avevano portato alla Liberazione, si giunse a definire alcune linee di sviluppo, che vedevano un consenso generale perché riguardavano il futuro del Paese, aldilà degli schieramenti.

Il primo punto riguardava lo schieramento dell’Italia nell’area atlantica, ritenendo che proprio l’Italia dovesse giocare un ruolo fondamentale nel Mediterraneo e nell’intero quadrante Sud Est Europa.

La seconda linea fondante riguardava il Mezzogiorno il Mezzogiorno come Questione Nazionale, con la creazione di una struttura in grado di sostenere lo sforzo straordinario con competenze ed organizzazione adeguate.

Il terzo punto era il ruolo dello Stato nell’economia, con la conferma dell’IRI e la presenza di una impresa pubblica che doveva operare in tutti quei settori ad alata intensità di capitale necessari per lo sviluppo dei sistemi di piccola e media impresa manifatturieri.

Tuttavia questi punti si riunivano fra loro nel quarto, che era la necessità di una programmazione delle azioni dello Stato per dare certezza a tutti- imprese, istituzioni, parti sociali- sulle scelte che ognuno doveva compiere negli anni successivi.

Fu questa intelaiatura istituzionale che permise lo sviluppo degli successivi, una crescita talmente rapida che venne chiamata “miracolo economico”. In realtà non fu un miracolo, cioè un evento imprevedibile ed inspiegabile, ma il risultato di una azione di governo lucida e coraggiosa.

La vicenda attuale del nuovo European Recovery Plan ci spiega che ancora una volta quelle quattro tematiche fondanti del nostro sviluppo si ripresentano ed attendono risposta.

Innanzitutto quale ruolo giocare in Europa ed in particolare nel Mediterraneo? Il Recovery Fund non è un affare interno dell’Italia, ma un investimento straordinario dell’Unione Europea per il rilancio dell’intera Europa, con la convinzione che l’Italia è necessaria alla crescita per l’intera Unione.

È in questa dimensione europea che l’opzione Mezzogiorno assume tutta la sua valenza nazionale. La crescita del Sud Italia diviene la misura dell’effettiva crescita dell’intera Europa. In questo il tema del ruolo dello stato e della sua organizzazione diventa fondamentale per rendere credibile la nostra presenza proprio nel momento in cui l’Italia assume l’onere di presiedere il G20 nella fase delicatissima di uscita dalla pandemia mondiale.

Così si giunge al tema della programmazione economica come portante di una azione pubblica di lungo periodo, cioè tale da sostenere gli investimenti privati e quindi l’avvio di un processo virtuoso di accelerazione dell’economia.

Programmazione significa certezza delle fasi di attuazione e quindi disponibilità di competenze e delle strutture per realizzare gli impegni infrastrutturali ed operativi, che vengono assunti con il Piano nazionale di rilancio e resilienza. La nostra esperienza di programmazione dei fondi strutturali europei dimostra come proprio nell’attuazione sta il nostro punto debole, cosicché la quantità di risorse – i 200 miliardi, che sono divenuti nottetempo oltre 300 – è strettamente legato alla organizzazione ed alle competenze per realizzazione questi progetti.

Questi progetti sono per altro sembrano messi assieme assommando disegni non sempre coerenti fra loro e surrogati dalla moltiplicazione di sempre nuovi centri di ricerca e trasferimento, che non tengono conto delle strutture già esistenti.

Porre all’interno di questo complesso di relazioni una crisi di governo largamente incomprensibile vuol dire scardinare l’intero quadro di riferimento, che legittima un investimento di questa dimensione non solo finanziaria, ma anche politica. Senza questo quadro operativo ciò che resta è la promessa di una crescita a breve termine, contro la certezza di un debito “sudamericano” per i nostri figli.


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