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È INCOMPRENSIBILE l’interesse suscitato dall’annuncio di Giuseppe Conte al Festival dell’economia di Trento: il governo non ha intenzione di prorogare quota 100 dopo la scadenza del 31 dicembre 2021. Non c’è proprio nulla di nuovo. Quota 100 è una misura voluta fin dall’inizio a carattere sperimentale e derogatorio per un triennio, che avrebbe dovuto fare da ponte con un intervento più organico.
QUOTA 100
Sarebbe, tuttavia, il caso di spiegare all’opinione pubblica che “quota 100’’ non ha mancato soltanto l’obiettivo di sostituire gli anziani in uscita con l’assunzione di giovani (come ormai è riconosciuto da tutti gli osservatori), ma non ha convinto neppure i destinatari di questo provvedimento (va ricordato, però, che quanti maturano i requisiti previsti entro la fine del 2021 si portano appresso la possibilità di esercitare successivamente il diritto al pensionamento anticipato) il cui numero, nel 2019, è risultato inferiore alle previsioni (confermate per il 50% nel pubblico impiego; solo per il 15% nel settore privato). La questione della spesa pensionistica è entrata di prepotenza (per il suo rilievo) anche nel dibattito sulla ripartizione della spesa tra Nord e Sud, dopo la “denuncia’’ della sottrazione di 60 miliardi alle regioni meridionali. Alcuni economisti – pur ammettendo ciò che è risaputo e cioè che le pensioni più pregiate (in particolare quelle di anzianità) sono erogate al Nord a ex lavoratori maschi – hanno sostenuto che è sbagliato includere la spesa pensionistica nel computo, perché i trattamenti di cui si tratta sono coperti dai contributi. Sul Quotidiano del Sud abbiamo dimostrato che questo sinallagma pensioni/contributi non esiste neppure al Nord, perché i trattamenti corrisposti alle generazioni del baby boom (quelle che sono andate in quiescenza negli ultimi anni e che ci andranno in quelli prossimi) hanno fruito del “premio’’ garantito dal calcolo retributivo per quote importanti della loro storia lavorativa.
LA CORTE DEI CONTI
La Corte dei conti – si vedano i grafici di questa pagina – ha dimostrato che l’introduzione di quota 100 (notoriamente più diffusa nelle regioni settentrionali e tra i lavoratori maschi: si calcola una donna ogni sei uomini) ha amplificato (mettendo a confronto il pannello A con quello contrassegnato B) il divario tra la pensione erogata e i contributi versati. Ovviamente tale divario si amplia lungo tutto il periodo in cui la prestazione viene percepita, incluso il conteggio della reversibilità ai superstiti. Sempre la Corte dei Conti, infatti, ha messo in campo anche dei numeri. Considerando 100 euro di retribuzione pensionabile in regime retributivo, corrispondenti a un trattamento di 62 euro, e tenendo conto di una speranza di vita di 25 anni, il lavoratore in ipotesi (con 62 anni e 38 di contributi) beneficerà di trattamenti complessivi pari a 1.550 euro nel 2044 quando cesserà la pensione diretta; il superstite beneficerà poi, sotto forma di pensione indiretta, per ulteriori 13 anni di 37 euro di assegno annuo con il che i benefici pensionistici complessivi dell’assicurato in questione assommeranno a 2.033 euro. A fronte di ciò il grafico mostra che a fine 2018 i contributi sociali cumulativamente versati tra il 1981 e il 2011, cioè quelli validi per la sola quota retributiva di cui ci si sta qui occupando, erano pari a 673 euro.
L’ALLARME
Intanto è scoppiato l’allarme: «Le previsioni della spesa pensionistica continuano a scontare il sensibile aumento del numero di soggetti che accedono al pensionamento anticipato, con “Quota 100” e le altre opzioni. Secondo la previsione a legislazione vigente, una crescita della spesa per pensioni più contenuta rispetto a quella dell’economia contribuirà a far scendere il rapporto tra tale spesa e Pil, dal 17,1% del 2020 al 16,2% nel 2023. Cionondimeno, la spesa per pensioni a legislazione vigente nel 2023 risulterà più alta di 0,8 punti percentuali in rapporto al Pil in confronto al 2019». Così è scritto nel Nadef. Insomma, le politiche previdenziali del Conte 1 presentano la nota spese al Conte 2. Qualche sindacalista è arrivato a sostenere che il governo si è sbagliato (sic!) a fornire il dato all’Unione europea, dimenticando che le statistiche si fanno sulla base di indicatori concordati e comuni.
L’EQUIVOCO
È la solita mania di equivocare tra le spese previdenziali e quelle assistenziali, in nome di una separazione tra i due comparti che è già stata compiuta nel 1984 e perfezionata nel 1998, prima dell’ingresso nel club dell’euro. Ne deriva che la spesa pensionistica è una sola e che è finanziata attraverso i contributi e i trasferimenti. Pretendere di ‘‘sterilizzare’’ quanto è posto a carico del fisco perché l’ammontare dei contributi non basta a coprire il costo del sistema, più che una partita di giro costituirebbe un falso in bilancio, in stile greco. Tutto ciò premesso, la questione si sposta sul come uscire dal regime delle deroghe sperimentali alle regole della riforma Fornero, perché, senza adeguate modifiche, esse tornerebbero in vigore “più gagliarde’’ di prima, con lo “scherzo da prete’’ di uno “scalone’’ (da 62 a 67 anni) per quei soggetti che non avessero i requisiti per il pensionamento ordinario di anzianità. A risolvere il problema sono in azione le confederazioni sindacali in un clima di “cordiale intesa’’ con il ministro Nunzia Catalfo. Perché “uscire in avanti’’ quando è più facile e confortevole farlo “all’indietro’’?
SINDACATI IN ERRORE
In soldoni, la proposta di Cgil, Cisl e Uil “supera’’ la riforma Fornero, riportando il sistema pensionistico alla belle époque del secolo scorso. Si andrebbe in quiescenza con almeno 62 anni di età (e 20 di anzianità contributiva) oppure con 41 anni di versamenti a qualunque età (evitiamo di elencare la gamma di ulteriori sconti che sarebbero previsti come contribuzione figurativa per la maternità, i lavori usuranti e disagiati e quant’altro). I dirigenti sindacali non sono degli sprovveduti, tanto che accompagnano queste loro proposte con un ragionamento, fondato sul piano tecnico, ma sbagliato su quello politico. Nelle future pensioni – affermano – sarà crescente la quota da calcolare col metodo contributivo. In tali casi il relativo montante verrà moltiplicato per un coefficiente ragguagliato all’età, in applicazione del quale sarà incentivato il posticipo e disincentivato l’anticipo. Ma è proprio questo l’errore; perché non ha senso, al cospetto degli scenari demografici attesi e del ritardo delle nuove generazioni nell’ingresso nel mercato del lavoro, premiare la durata della pensione (anticipandone la decorrenza) a scapito dell’adeguatezza del trattamento. I sindacati – anche se chiedono una pensione di garanzia per i giovani (è singolare volerli tutelare da pensionati, visto che non riescono a farlo da lavoratori) – rimangono prigionieri della condizione dei baby boomers (maschi e settentrionali): i soli che possono continuare a trarre beneficio da siffatti requisiti.
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Alcune osservazioni puntuali.
Citazione1: “Qualche sindacalista è arrivato a sostenere che il governo si è sbagliato (sic!) a fornire il dato all’Unione europea, dimenticando che le statistiche si fanno sulla base di indicatori concordati e comuni …”
Il prof. Cazzola, come gli capita talvolta quando scrive di pensioni (cfr. il mio saggio con le prove documentali di alcuni suoi articoli e l’analisi delle norme pensionistiche o il suo blog su Huffington Post con i miei commenti sulla base delle norme) si dà ragione da solo. E’ vero che viene utilizzato dall’ISTAT, in forza delle regole statistiche definite in sede europea per tutti i 27 Paesi UE, un criterio di classificazione della spesa pensionistica che mette insieme la previdenza e l’assistenza, ma questo non esime dal dire che la cosiddetta “spesa pensionistica” include anche l’assistenza, che non rappresenta pensioni e, infatti, viene pagata dalla fiscalità generale. O il TFR, che può essere riscosso anche decenni prima del pensionamento.
Citazione2: “Pretendere di ‘‘sterilizzare’’ quanto è posto a carico del fisco perché l’ammontare dei contributi non basta a coprire il costo del sistema, più che una partita di giro costituirebbe un falso in bilancio, in stile greco.”
Idem come sopra, anzi peggio. Come ho già scritto varie volte, da ultimo in calce all’ultimo editoriale del direttore Napoletano (https://www.quotidianodelsud.it/laltravoce-dellitalia/gli-editoriali/economia/2020/10/08/leditoriale-di-roberto-napoletano-laltravoce-dellitalia-il-paese-arlecchino-che-si-nutre-di-fake/ ), nella spesa pensionistica sono inclusi 90 mld di voci spurie, in primo luogo le imposte, che oltre ad essere le più alte sia in ambito UE che OCSE, sono una mera partita di giro, e, come sa anche uno studente del 1° anno che abbia studiato le partite di giro e i conti transitori, esse hanno un impatto nullo sulla spesa pensionistica. Come conferma lo stesso INPS esponendo i dati relativi agli assegni pensionistici netti pagati (2018).[1]
Al netto delle imposte e dell’assistenza, come confermano Felice Roberto Pizzuti e Alberto Brambilla,[2] non c’è un disavanzo pensionistico ma un avanzo. Ergo, il falso in bilancio lo si fa adesso. Oltre a falsare il confronto internazionale, tant’è che almeno l’OCSE – ed è l’unica a farlo – espone i dati della spesa pensionistica dei 35 Paesi OCSE sia al lordo che al netto delle imposte.
Citazione3: “Tutto ciò premesso, la questione si sposta sul come uscire dal regime delle deroghe sperimentali alle regole della riforma Fornero, perché, senza adeguate modifiche, esse tornerebbero in vigore “più gagliarde’’ di prima, con lo “scherzo da prete’’ di uno “scalone’’ (da 62 a 67 anni) per quei soggetti che non avessero i requisiti per il pensionamento ordinario di anzianità.”
Come al solito il prof. Cazzola cita soltanto la Riforma Fornero e omette la ben più severa Riforma SACCONI, ch’egli votò nel 2010 e 2011. Vale la pena di ri-risegnalare che l’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni è stata decisa dalla Riforma SACCONI (per un esame completo degli effetti delle due citate riforme, si veda il Quadro sintetico dell’età di pensionamento in base alle norme e ai loro autori (2019) nel mio commento qui https://www.quotidianodelsud.it/laltravoce-dellitalia/gli-editoriali/economia/2020/09/28/leditoriale-di-roberto-napoletano-laltravoce-dellitalia-giochi-pericolosi/ .
Citazione4: “Nelle future pensioni – affermano – sarà crescente la quota da calcolare col metodo contributivo. In tali casi il relativo montante verrà moltiplicato per un coefficiente ragguagliato all’età, in applicazione del quale sarà incentivato il posticipo e disincentivato l’anticipo. Ma è proprio questo l’errore”.
La flessibilità in uscita era la peculiarità positiva della Riforma Dini, che introdusse nel 1995 il metodo contributivo, con la relativa tabella dei coefficienti. Copiata dalla Svezia e abbandonata in Italia. Sarà anche un errore incentivare il pensionamento anticipato, ma questo non pregiudica l’equilibrio del sistema, come è ben spiegato da Michele Raitano.[3]
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[1] «Le pensioni vigenti al 1° gennaio 2019 sono 17.827.676, di cui 13.867.818 di natura previdenziale (vecchiaia, invalidità e superstiti) e le restanti 3.959.858 di natura assistenziale (invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali). Nel 2018 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 204,3 miliardi di euro, di cui 183 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali. È quanto emerge dall’Osservatorio sulle pensioni erogate dall’INPS che analizza i dati del 2018.»
Si tenga presente che “ufficialmente” secondo l’ISTAT la spesa pensionistica 2018 ammonta a 293 mld, 16,6% del PIL https://www.ilsole24ore.com/art/pensioni-istat-2018-spesa-sale-293-miliardi-ACSFn8BB.
[2] Il professor Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica Economica e di Economia e Politica del Welfare State presso la Facoltà di Economia della Università di Roma «Sapienza», nel suo articolo «Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere», evidenzia: «L’analisi storica dei bilanci del sistema pensionistico mostra che le consistenti riforme della prima metà degli anni ’90 furono più che sufficienti a recuperare gli squilibri finanziari accumulati negli anni precedenti. Già dal 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali è tornato ininterrottamente in attivo e nel 2016 è stato di circa 39 miliardi, pari al 2,3% del Pil (Tab. 1).»
Il dottor Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, in un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera e intitolato «Numeri corretti all’Europa per tutelare i veri pensionati», scrive: «I dati – ● La spesa per le pensioni per il 2016 è pari a circa 218 miliardi mentre i contributi sono pari a 197 miliardi: il deficit è quindi di 21 miliardi. Inoltre, se alle prestazioni togliamo le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali (l’ex milione al mese di Berlusconi) che pure l’INPS mette tra le spese assistenziali, e senza considerare la quota assistenziale per i dipendenti pubblici pari a 8,1 miliardi, la spesa si riduce a meno di 208 miliardi. ● Ma quanto arriva davvero nelle tasche dei pensionati italiani? Poiché sulle pensioni, a differenza di altri paesi dell’Unione Europea, gravano le imposte che per il 2016 sono stati pari a quasi 50 miliardi, la spesa vera si riduce a poco più di 150 miliardi che rapportato ai contributi pagati dalla produzione (aziende e lavoratori) evidenzia un saldo positivo di oltre 30 miliardi.»
[3] La flessibilità dell’età pensionabile: una soluzione a portata di mano che si stenta a riconoscere
Scritto da: Michele Raitano
https://www.eticaeconomia.it/la-flessibilita-delleta-pensionabile-una-soluzione-a-portata-di-mano-che-si-stenta-a-riconoscere/