La sede del Parlamento Europeo
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«Non ci sono progetti grandi da finanziare e progetti piccoli da bocciare. Ci sono progetti utili e progetti inutili. E purtroppo la maggior parte delle 534 proposte trasmesse finora al Ciae appartengono a quest’ultima categoria».
La cortina di segretezza richiesta ai componenti del Comitato ministeriale per gli Affari europei (Ciae) impone l’anonimato, ma le perplessità che sono state avanzate su come noi italiani abbiamo impostato finora il lavoro non sono certamente poche.
Entro il 15 ottobre la Commissione di stanza a Palazzo Chigi dovrà presentare il piano delle opere da realizzare attingendo al Recovery Fund, previo il via libera da parte del Parlamento. Ma siamo ancora in alto mare. Manca una strategia complessiva, una visione. Ognuno vorrebbe far girare il mulino nella sua direzione. Governatori, sindaci, ministri.
IL TIRA E MOLLA È SOLO ALL’INIZIO
Il tira e molla è solo iniziato. E poco importa che dall’Unione europea arrivino nel frattempo indicazioni di senso opposto e contrario.
Il timore è che le risorse finiscano per riversarsi in mille rivoli, anziché concentrarsi. Ognuno vorrebbe passare una riga di evidenziatore sul proprio progetto. La tensione corre sul filo.
Non è assolutamente un caso che Nicola De Michelis, direttore per la crescita intelligente e sostenibile presso la Dg regionale della Commissione europea, abbia dovuto ricordarlo più volte: un aumento della liquidità immediatamente sostenibile e una flessibilità per quanto riguarda la tipologia di investimenti finanziarie è possibile. Si potrà finalmente riuscire a finanziare quelle misure che non sono normalmente sostenute dalla politica di coesione europea.
La Commissione accetterà però lo spostamento di risorse solo in ordine a priorità ben precise. Priorità in senso assoluto. In cambio si chiedono al governo, al Paese misure atte a snellire il funzionamento della macchina amministrativa.
NO AI FINANZIAMENTI A PIOGGIA
La reiterazione dello stesso concetto, che viene ribadito un giorno sì e l’altro pure dai tecnici di Bruxelles, ha messo in allarme Palazzo Chigi e dunque il Ciae.
Fino a ieri, cioè prima del Coronavirus, le risorse finanziarie della politica di coesione venivano distribuite tra programmi nazionale e regionali purché venissero fissati obiettivi a sette anni.
Ma ora non c’è più tempo da perdere, bisogna fare presto, è necessario «derogare ad alcuni dei vincoli previsti». Questo non vuol dire scaricare a pioggia tutti i progetti rimasti nei cassetti per anni, considerata la penuria cronica di investimenti pubblici.
Bruxelles ha parlato chiaro: il primo lavoro da fare è una ricognizione «programma per programma», «progetto per progetto» «priorità per priorità» per stabilire quali sono le opere realmente realizzabili nel breve termine per rilanciare i territori più svantaggiati dinanzi alla sfida del Covid. Primo fra tutti il Sud.
RACCOMANDAZIONI IGNORATE
Sempre da Bruxelles – si fa sapere in ambito ministeriale – sarebbero arrivate altre raccomandazioni, ignorate finora da gran parte dei dicasteri.
Niente sussidi a pioggia, niente liste di progetti senza un’anima, cioè costruiti a tavolino per non scontentare Tizio o Caio: le risorse straordinarie devono essere spese per liberare le capacità imprenditoriali e migliorare la qualità della vita e la giustizia sociale in tutti i territori. In primo luogo, vanno sostenute le aree marginalizzate, dove le risorse umane e culturali naturali sono mortificate.
Un capitolo a parte è l’attenzione riservata alla sanità e alle misure anti-Covid. Ma qui entra in ballo un altro discorso: l’utilizzo o meno del Mes. Un rebus per ora.
LE RICHIESTE DEI SINDACI
I sindaci delle grandi città hanno già lanciato un manifesto in 10 punti. Chiedono che dei 209 miliardi almeno 20 siano riservati ai Comuni.
Richieste sacrosante, dopo anni e anni di tagli: un piano straordinario per le periferie; un piano per le infrastrutture leggere; una pubblica amministrazione amica; la crescita sostenibile; edilizia verde efficiente.
E ancora: mobilità sostenibile e pubblica; economia circolare e riuso delle acque; città digitali e intelligenti; scuola al centro delle città; una casa per tutti; rigenerazione urbana; patto per lo sviluppo, cultura e turismo; scuola nazionale di Pubblica amministrazione. Di tutto di più, con il rischio di sovrapposizioni e duplicazioni.
E se la ministra De Micheli avanza una programmazione di vecchia data – il progetto “Italia veloce” per espandere la rete; il finanziamento di grandi opere strategiche ma anche il Piano Metro, oltre a manutenzioni stradali e altre piccole opere – nessuno si tira indietro.
Un libro dei sogni da realizzare in sinergia con gli enti locali, in primis le regioni e i Comuni. Ed ecco il problema. Ogni ente tira l’acqua al proprio mulino. E l’elenco si allunga: opere sociali; asili nidi, scuole da ristrutturare, medicina territoriale, cibernetica, tecnopoli.
LE PROTESTEbDEGLI AMBIENTALISTI
Si fanno avanti le città, i piccoli Comuni, ma anche la Capitale. Roma, ad esempio, ha già trasmesso un elenco di commissariati da ristrutturare.
La giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia, tanto per dirne una, con il Recovery, vuole realizzare l’autostrada Cimpello-Gemona.
Un assalto alla diligenza, in piena regola, insomma, «un’opera che genera una perdita di valore del capitale territoriale coinvolto che produrrebbe disagio sociale e costi ambientali, danni paesaggistici certi e irreversibile», sono già insorti gli ambientalisti.
L’economista Francesco Giavazzi ha pensato bene di proporre, nell’elenco di opere da realizzare, il “Treno delle Dolomiti”, un anello ferroviario vhe viene caldeggiato dal Movimento per le autonomie. Le regioni dove il reddito pro-capite è più elevato sarebbero disposte a tutto pur di riuscire a sedersi al tavolo e avere la loro fetta di torta. Anche a occultare le loro ricchezze, se occorre.
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Infrastrutture strategiche: Grande Piano Pluriennale di Alloggi Pubblici di Qualità
Prima dei telefoni e dei treni, ecc., viene la casa. Gli alloggi pubblici popolari (cat. A4) e ultrapopolari (cat. A5) censiti dall’Agenzia delle Entrate nel 2018, spesso fatiscenti, sono appena 526.699 unità, pari all’1,5 per cento del totale di 35 milioni di immobili residenziali, contro il 10, 20, 30 per cento di altri Paesi UE (al 1° posto c’è l’Olanda col 32%, poi l’Austria col 23%, la Danimarca col 20%, la Francia col 16%).
Pertanto, l’obiettivo prioritario in Italia deve essere un GRANDE PIANO PLURIENNALE DI CASE POPOLARI DI QUALITA’, sulla falsariga del piano Fanfani.
Sarebbe un piano, peraltro, in raccordo con le recenti proposte del gruppo di studio di alto livello, presieduto da Romano Prodi, per conto della Commissione Europea.
Nel 2010 in Francia sono state costruite 131.509 unità abitative per l’edilizia popolare, il che rappresenta un “record assoluto negli ultimi 30 anni”. Cioè quante al ritmo attuale se ne costruiscono in Italia in 60 anni.
Con i soldi del Recovery Fund, ci si potrebbe porre l’obiettivo di costruirne almeno il 30% all’anno, cioè 40.000, per un investimento di 4 mld. Ampliando il limite reddituale di accesso alle case popolari. Si otterrebbero vari vantaggi: maggiore equità sociale, riduzione della tensione abitativa, calmieramento degli affitti, aumento del reddito disponibile delle fasce meno abbienti e quindi a più alta propensione al consumo, incremento dei consumi, crescita economica attivata da un settore ad alta intensità di lavoro e a basso fabbisogno di importazioni.