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OGNI giorno il Sud “perde” circa 170 milioni. Sì, avete letto bene, anche se la parola “perdere” non è la più appropriata, sarebbe il caso di dire che viene scippato. A tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Mezzogiorno e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale.
Lo ha svelato il nostro giornale con l’Operazione verità, è stato certificato dalla Corte dei Conti, e lo ha ammesso anche la Commissione parlamentare d’inchiesta. Eppure, nulla è cambiato, nemmeno il Covid-19 è riuscito, al momento, ad impedire la sottrazione di risorse. Sì, ci sono state promesse, ne abbiamo sentite molte, l’ultima sulle Infrastrutture e sul progetto “Italia Veloce” nel Mezzogiorno che, secondo la ministra Paola De Micheli, sarebbe in dirittura d’arrivo: si tratta di una proposta programmatica che va approvata dalla Conferenza Stato Regioni, dal Cipe, dal Consiglio dei ministri, dalle Commissioni parlamentari competenti. Promesse, progetti, sogni nel cassetto: la realtà dei fatti, invece, ci riporta con i piedi per terra, anzi nella melma. Restando nel campo delle infrastrutture, solo per dirne una, nel 2018 la Svimez ha calcolato che al Mezzogiorno sono stati sottratti ulteriori 3,5 miliardi di euro.
Nella sanità, la riforma dei criteri di valutazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) rischia di togliere agli ospedali del Sud un altro miliardo. Insomma, siamo passati ad un livello successivo, allo scippo della spesa storica 2.0. Gli oltre 62 miliardi di spesa pubblica mancata risuonano nell’intervento in Parlamento del ministro Francesco Boccia: «Il Sud non ha mai avuto più del 22% di risorse negli ultimi sedici, diciassette anni» a fronte di una popolazione superiore al 34%. Il problema è la spesa storica, la definizione dei livelli essenziali è una priorità.
La politica cosa fa? Propone soluzioni, ma poi concretamente non cambia nulla. Tra le promesse, c’è anche quella sul rafforzamento della clausola del 34%, ma mancano le sanzioni in caso di inadempienza. Tra il dire e il fare… Un conto è ammettere la sottrazione di risorse al Sud, altra cosa è procedere ad una rapida restituzione.
DOPPIA BEFFA AL SUD SUI FONDI PER LA SANITÀ
Il giochetto delle tre carte dei costi standard, della spesa storica e dei fabbisogni fa sì che il ricco è sempre più ricco e il povero è sempre più povero. La prova ci viene fornita dando uno sguardo a quanto accadrà tra qualche mese nel riparto del Fondo sanitario, dove il Sud rischia una doppia beffa: anziché ricevere più risorse, quasi tutte le Regioni del Mezzogiorno si ritroveranno con meno fondi. Il nuovo sistema di verifica e valutazione dei Lea, che entra in vigore da quest’anno, prevede criteri più severi per giudicare la qualità e l’efficienza dei sistemi sanitari regionali e, stando ad una simulazione svolta dal Comitato Lea – organo del ministero della Salute – solo 11 Regioni su 21 risultano essere adempienti, quindi sarebbero promosse.
Le “inadempienti” sono quasi tutte del Sud: Campania, Calabria, Molise, Basilicata, Sicilia, Lazio, Sardegna, si salvano soltanto Puglia e Abruzzo. Il documento della simulazione è riportato dalla Corte dei Conti nel suo ultimo Report sul coordinamento della Finanza pubblica. Superare il giudizio del Comitato Lea non è fine a sé stesso: riuscire a raggiungere un punteggio di sufficienza garantisce alle Regioni lo sblocco di ulteriori fondi, una quota premiale pari al 3% del riparto del fondo sanitario al netto delle entrate proprie.
Per intenderci, parliamo complessivamente per il Mezzogiorno di circa un miliardo di euro. Peccato, però, che prima di “inasprire” i criteri per valutare la qualità delle cure, nessuno si sia preoccupato di mettere fine allo “scippo” che il Mezzogiorno subisce da almeno 15 anni. Depauperate delle risorse economiche, le Regioni del Sud oggi si ritrovano con meno personale, meno soldi da spendere e macchinari più obsoleti. E’ un dato di fatto certificato che il Nord continua a prendere più soldi per i suoi ospedali, anche nel 2020 il riparto del fondo sanitario ha seguito logiche inique: meno risorse a parità di popolazione. Alla Puglia, 4,1 milioni di abitanti, dei 113,3 miliardi complessivi, sono stati riservati 7,49 miliardi; l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) riceverà 8,44 miliardi: quasi un miliardo in più nonostante una popolazione quasi identica. Prendendo in considerazione il Veneto (4,9 milioni di abitanti) la sproporzione resta, visto che la Regione di Zaia incassa 9,2 miliardi, quasi due in più rispetto alla regione di Michele Emiliano. Le differenze si fanno ancora più palesi se prendiamo la spesa pro capite dello Stato per ogni cittadino: per la salute e le cure di un pugliese, lo Stato investe 1.826 euro, contro i 1.918 riservati ad un emiliano e 1.877 per un veneto. La Lombardia, che conta 10 milioni di residenti, riceve 18,8 miliardi.
Dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (per la precisione 944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.
IL CROLLO DEGLI INVESTIMENTI PUBBLICI
Dalla sanità alle strade: è sufficiente osservare la curva degli investimenti pubblici destinati allo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno per individuare la causa principale di una Italia spaccata in due. Fra il 1950 e il 1960 la dote era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che negli anni Settanta erano circa la metà di quelli complessivi, negli anni più recenti sono calati a un sesto di quelli nazionali. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro; nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro.
IL GAP SUI TRASFERIMENTI PER LA RICERCA
Sull’istruzione la storia non cambia: nel 2016, le università pubbliche e private italiane hanno investito circa 5,6 miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Di questa somma, 1,3 miliardi sono stati spesi dagli Atenei delle Regioni del Sud, mentre ben 3,1 miliardi – oltre il doppio – dalle ricche università del Nord (fonte: “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia” del Cnr). Una differenza che ha come causa principale l’enorme scarto che c’è nella ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo): nonostante l’introduzione di un fondo perequativo che dovrebbe ridurre le storture e le diseguaglianze nella suddivisione delle risorse statali, il 42,3% dei trasferimenti finisce ancora nelle casse degli Atenei del Nord, al Sud il 21,4% (sommando anche Sicilia e Sardegna si tocca il 32,4%), il restante 25,3% al Centro.
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