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Nell’elencazione di ristoranti, bar, negozi, piccole aziende costrette a chiudere c’è qualcosa di malinconico. E non siamo ancora allo Spoon river, all’epitaffio posto accanto alla saracinesca abbassata causa Covid, anche se forse dopo l’estate ci arriveremo.

Vorremmo a quel punto che qualunque parola venga spesa a futura memoria delle imprese defunte, o delle partiva Iva smaltite come olii esausti, non si dica che non era stata tutto previsto, anche se ora qualcuno tra quanti hanno trovato udienza nel fascinoso Casino del Bel Respiro finge di sorprendersi e cade dal pero.

MISURE INADEGUATE

Tanta bellezza stride con la castigatezza maoista con cui sono state distribuite le risorse sciogliendo nell’aria anni e anni di impegno e lavoro. E senza che nessuno finora abbia pagato pegno al di fuori dei diretti interessati che non hanno alcuna colpa.

Mentre altri Paesi europei irroravano a pioggia le loro aziende per consentire la ripartenza da dove le pratiche si ammucchiavano. Ancora una volta ricorriamo ai numeri elencati dal ministro dell’Economia e delle finanze Roberto Gualtieri e certificati dal timbro di palazzo San Macuto, dove ha sede la Commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario.

Le misure governative a sostegno della liquidità, contenute nei decreti-legge n. 18 e 23 del 2020, si sono dimostrate inadeguate. Se è vero come è vero che le domande di garanzia accolte dal Fondo centrale Pmi dall’inizio della Pandemia alle prime riaperture, sono state 475.225 per un importo pari a 18 miliardi di euro. Di queste, 439.738 erano relative a finanziamenti fino a 25 mila euro. Il minimo sindacale per pagare affitti, bollette, spese varie e ripartire. In totale avrebbe significato finanziare questi piccoli imprenditori, per un importo complessivo di 9 miliardi, con una percentuale per di più coperta al 100% dallo Stato. Ebbene, alla fine di maggio, a fronte di queste richieste e con queste garanzie, la cifra effettivamente erogata è stata di 6,6 miliardi. Poco più di un terzo del richiesto. Di che vogliamo parlare?

FALLIMENTO TOTALE

Un fallimento totale. Per stessa ammissione del ministro Gualtieri, audito dalla Commissione una decina di giorni fa, ai primi di maggio, ovvero alla fine della fase 1, le domande accolte per il piccolo prestito erano poco più di 1.000 (26 milioni di euro, il costo di un discreto difensore di una normale squadra di serie A (sic…).

La casa bruciava e c’era ancora qualcuno che continuava a vivere nel suo iperuranio aspettando che le banche, con gran parte degli impiegati in smart-working e gli altri che ricevevano solo su appuntamento, distribuissero ossigeno alle imprese ormai agonizzanti.

Lo segnaliamo a chi un domani si prenderà la briga di scrivere la storia di quei maledettissimi giorni. Come se non bastasse, in quei momenti drammatici, che per fortuna ci siamo lasciati alle spalle, è andata in tilt anche la moratoria per i mutui sulla prima casa, art. 54 del decreto Cura Italia.
Per accedere al cosiddetto “Fondo Gasparrini” e ottenere la sospensione del rateo, occorreva infatti un’autorizzazione rilasciata da Consap S.p.A. Una società pubblica, società che evidentemente nessuno conosceva bene, altrimenti avrebbe saputo che gestire nell’arco di pochi giorni circa 147 mila domande, quante se ne ricevono in media in un anno, avrebbe richiesto uno sforza sovraumano. Una follia. La seconda. E non è finita.

IL PRIMATO DEL PORTAFOGLIO

Anziché privilegiare il cosiddetto primato del portafoglio, ovvero mettere il denaro direttamente nelle tasche degli italiani si è scelta un’altra strada. Così che anche volendo le banche non avrebbero potuto garantire i flussi necessaria a superare la crisi. Sono persino saltate le linee, il sito del Medio credito centrale a causa del numero di procedure richieste è andato in panne. C’è chi racconta di richieste elaborate a notte inoltrata per trovare la connessione.

Ma neanche questo è bastato a ridurre il delta tra numero di domande ed erogazioni effettive. Con i clienti in fila fuori con le mascherine e i direttori di banca che chiedevano garanzie legali per non incorrere in reati di bancarotta. Una sorta di burocrazia difensiva basata sul pregiudizio: la “improbabile insolvenza”; le “esposizioni scadute” e i crediti deteriorati. Alcune banche, non poche in verità, hanno chiesto, soprattutto all’inizio, che gli eventuali prestiti servissero a copertura di altre esposizioni, una rinegoziazione del debito per evitare di finanziare aziende decotte,

Esclusi da ogni linea di credito è rimasto poi chi per qualsivoglia motivo sia finito nel registro della Centrale rischi. Vittime di una vertiginosa negazione, Schedati a vita, nella condizione di appestati, neanche il Codiv è bastato a riabilitarli.

Poi c’è la Sace. Scelta perché avrebbe dovuto interfacciarsi con le banche. E qui si apre un capitolo a parte. In teoria, questa costola di Cassa depositi e prestiti avrebbe dovuto agire in un rapporto di complementarietà tra Garanzia Italia, scelta per gestire richieste di finanziamento di importo superiore, e il Fondo di Garanzia In realtà, al 2 giugno risultavano concesse garanzie solo su 44 richieste. E di queste il 77% al Nord, il 16% al Centro e solo il 7% al Sud.

Una task force tira l’altra e, tra malfunzionamenti, ritardi, ecc., si è arrivati al Decreto Rilancio che sulla spinta di tante critiche ha portato a un rafforzamento e alla conversione del Decreto liquidità. O se preferite illiquidità. Storia di un disastro annunciato.


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