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Per la sanità, nel 2019 la Lombardia – che ha il doppio della popolazione della Puglia – ha speso quasi il triplo della regione amministrata da Michele Emiliano. Circa 19,3 miliardi per 10 milioni di residenti, contro i 7,7 miliardi della Puglia per 4,2 milioni di abitanti.
I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle singole Regioni e, come sempre, i numeri non mentono: la disparità di trattamento tra Nord e Sud è raccontata fedelmente da queste cifre. Alla voce “Tutela della salute”, nel suo bilancio la Puglia (4,1 milioni di residenti) nel 2019 iscrive la somma di 7,7 miliardi. L’Emilia Romagna (popolazione 4,4 milioni), invece, quasi 10,2 miliardi, 2,5 in più nonostante uno scarto residuale di abitanti; il Veneto (4,9 milioni) spende 10,1 miliardi; la Lombardia, che ha poco più del doppio della popolazione della Puglia (10 milioni di residenti) addirittura spende quasi il triplo, 19,3 miliardi.
IL DIVARIO
Insomma, una “tutela della salute” a macchia di leopardo: in alcune zone è più garantita, in altre un po’ meno, grazie a una distribuzione del fondo nazionale non propriamente equo. D’altronde, è accertato dalla Corte dei conti che dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei Regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, in media, del 2,36%. Altrettante Regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%.
Tradotto, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno avuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania, Calabria. Così è lievitato il divario tra le aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati solo 685 milioni in più.
Nel 2017 il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% da quelle del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.
E sbaglia chi pensa che il Sud sia incapace di spendere in modo efficiente i soldi, tramite una gestione oculata: tra il 2006 e il 2017, nel comparto sanità il deficit si è quasi annullato nelle Regioni del Sud sottoposte al monitoraggio o controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia, mentre è raddoppiato nelle Regioni del Nord a Statuto speciale che hanno più autonomia e libertà di spesa.
LA CORTE DEI CONTI
A certificarlo è la sezione “Autonomie” della Corte dei conti in una relazione al Parlamento sull’attuazione del federalismo fiscale.
«Laddove il monitoraggio esterno si riveli meno incisivo – scrivono i giudici contabili – a fronte di maggiori spese si verifica che non ci sia chiarezza sulla ragione delle stesse (è il caso di Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Trento e Bolzano), oppure che si vengano ad accumulare significativi disavanzi (è il caso della Regione Sardegna). Per contro, nelle Regioni che sono sottoposte a monitoraggio (“leggero” o più stringente per gli enti in piano di rientro dal deficit) si è riscontrato un netto miglioramento dei risultati di gestione».
E in effetti i numeri sono eloquenti: tra il 2006 e il 2017 il deficit si è ridotto nelle Regioni che sono state sottoposte a monitoraggio, passando da -1 miliardo di euro ad appena -82 milioni; stesso andamento per le Regioni sottoposte a Piano di rientro, quindi a un controllo ancora maggiore, dove il deficit è passato da -4 miliardi di euro a -223 milioni.
Risultato del tutto opposto nelle Regioni a statuto speciale e nelle due Province autonome del Nord, dove la Corte dei conti rileva una diversa tendenza: da – 600 milioni del 2006 a circa a -1,2 miliardi nel 2017. In sostanza, il disavanzo è raddoppiato.
Questo fa, quindi, dire alla Corte dei conti che «sarebbe certamente auspicabile che almeno il fabbisogno per l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) in condizioni di efficienza e appropriatezza, presentasse regole procedurali univoche sul territorio nazionale e tempestivamente recepite da tutti gli enti territoriali, così da permettere una più agevole valutazione dei costi della sanità nei diversi contesti territoriali».
Non solo: secondo i magistrati contabili troppa autonomia nella gestione del comparto sanitario potrebbe essere controproducente sul controllo delle spese.
«All’analisi suesposta – si legge nella relazione dei magistrati contabili – conseguono diverse considerazioni. La prima riguarda l’efficacia degli interventi di contenimento della spesa. E invero, laddove lo Stato non ha strumenti d’intervento diretto sulla dinamica di spesa, le politiche di contenimento sono state meno efficaci. Le Regioni a statuto ordinario, infatti, sono soggette a monitoraggio annuale ovvero, qualora in disavanzo, a più verifiche tecniche in corso d’esercizio relativamente al piano di rientro sottoscritto».
QUALITÀ DEL SERVIZIO
La Corte dei conti pone un’altra questione che riguarda la qualità del servizio offerto.
«Ultima considerazione, ma non per rilevanza, riguarda la qualità – si legge – e le condizioni di erogazione delle prestazioni sanitarie sul territorio nazionale. Come si è avuto modo di osservare nel referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali per l’esercizio 2016 in virtù delle diverse normative regionali, sul territorio nazionale non vengono erogate le medesime prestazioni sanitarie né agli stessi costi: l’accesso ai servizi sanitari, dunque, non avviene attualmente in condizioni di eguaglianza tra tutti i cittadini. E ciò è tanto più grave se si considera la recente pronuncia della Corte costituzionale secondo la quale è necessaria una delimitazione finanziaria dei Lea, definiti “spese incomprimibili e necessarie”, rispetto alle altre spese sanitarie: la reale copertura finanziaria dei servizi, data la natura delle situazioni da tutelare, deve riguardare non solo la quantità ma anche la qualità e la tempistica delle prestazioni costituzionalmente necessarie».
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