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Palazzo Chigi

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Giuseppe Provenzano – il ministro del Mezzogiorno e della Coesione sociale – non stava più nella pelle durante la conferenza stampa tenuta insieme al premier Giuseppe Conte. Del resto, l’ex direttore generale dello Svimez attendeva questo momento da una vita: poter applicare all’azione politica le teorie predicate ogni anno nel rapporto istituzionale a un’opinione pubblica sempre più disinteressata ai problemi dei ‘’fratelli’’ del Sud.

I DUBBI

«Con la norma che abbiamo inserito nella legge di bilancio, il 34% è diventato un vero vincolo normativo – ha detto il ministro – Già dal 2 gennaio alla cabina di regia Strategia Italia possiamo far valere il principio che si applica alla spesa ordinaria in conto capitale della pubblica amministrazione centrale e abbiamo un tavolo aperto con il Mef per l’assegnazione delle risorse. Il 34% si potrà applicare alle nuove misure della legge di bilancio per un totale di 2 miliardi. Di questi, 1,4 miliardi andranno al Sud nell’ambito dei 4,2 miliardi del fondo nazionale per il Green new deal. E la quota si applicherà anche alle infrastrutture, ad esempio ai 3 miliardi programmati per l’alta capacità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria».

Speriamo che sia la volta buona, anche se a vedere la gracilità del governo e della maggioranza emergono tanti dubbi sulla capacità di un esecutivo traballante di avviare a soluzione un problema che finora ha avuto risposte parziali, temporanee, che tuttavia non hanno cambiato il segno del mancato sviluppo del Mezzogiorno.

Ma nell’esprimere questi giudizi è bene essere cauti perché quell’area del Paese non è “una notte in cui tutte le vacche sono nere’’: talune delle grandi imprese sopravvissute da un’altra epoca – pensiamo agli stabilimenti Fca e, se riesce a sopravvivere ai suoi persecutori, l’ex Ilva – sono localizzate nel Meridione.

ANDARE OLTRE

Vi sono però aspetti da superare. Citiamo un caso avvenuto alcuni anni or sono, nella stabilimento di Melfi. Erano previste 300 assunzioni che sarebbero state seguite da altre 700, in un contesto in cui tirava aria nuova in tutto il gruppo. Nel primo blocco di assunzioni a Melfi, una ventina di giovani interruppe il periodo di prova, rinunciò all’impiego, ritenendo inadeguato il posto di lavoro offerto.

A questa fascia di assunti venivano richiesti, oltre a un’età inferiore a 30 anni, un diploma di scuola media superiore con un buon punteggio o addirittura una laurea, in quanto veniva prospettata loro una carriera di leader dei gruppi di lavorazione.

In tale situazione sarebbe facile commentare i fatti in modo strumentale e un po’ disonesto. Sia facendo notare che vengono rifiutati posti di lavoro pur in presenza di alti tassi di disoccupazione giovanile, specie nel Mezzogiorno, accompagnando il tutto con qualche litania sui “bamboccioni’’; sia lamentando l’amara sorte di poveri giovani, magari laureati in ingegneria, costretti a fare gli operai, per di più adibiti alla catena di montaggio, senza premurarsi di aggiungere che essa non ha più nulla da spartire con quella in funzione a Mirafiori, nel “bel tempo che fu’’.

LA CORTINA CULTURALE

Immaginiamo, pure, che qualche “anima bella’’ prenda spunto da questi eventi, per evocare il dramma della “disoccupazione intellettuale’’. Ma si può fare l’operaio oggi, in posti di lavoro che richiedono un ricco know how tecnologico e informatico, senza possedere almeno un diploma adeguato ? Negli altri Paesi europei, dove è più elevato il tasso di scolarizzazione che da noi, non sono scomparsi gli operai e i tecnici. E’ la loro elevata preparazione di base che, in qualche modo, concorre ad ‘‘ammortizzare’’ gli investimenti delle imprese e ad accrescere la produttività del lavoro, attraverso un più intenso ‘’capitale sociale’’.

Da noi è ancora presente una “cortina’’, prima di tutto culturale, che separa la scuola dal lavoro (solo il 5 per cento dei giovani compie esperienze lavorative durante il percorso formativo) e il lavoro manuale da quello intellettuale.

Viene spontaneo porsi una domanda. In Italia siamo ancora a interrogarci su come portare il Sud a un livello di sviluppo adeguato (il Paese nel suo insieme può evitare il declino soltanto se il Mezzogiorno “ce la fa’’), mentre la Germania, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha proceduto alla sfida dell’unificazione nello stesso arco di tempo in cui, oggi, in Italia si vara un bando per l’acquisto di begonie allo scopo di arredare i ministeri.

Anche in Germania non tutti erano d’accordo, ma Helmut Kohl si impose, privilegiò la scelta politica rispetto ai rischi dell’economia, procedendo con una vera e propria “mossa del cavallo’’: la parificazione delle monete. Il glorioso “Marco’’, la valuta più forte d’Europa accettò di imparentarsi con una moneta priva di valore di scambio. Poi fu la volta di ristrutturare un apparato produttivo obsoleto e inefficiente, caratterizzato da un prototipo di automobile: la Trabant.

Non risultano che ci siano stati casi come quello di Melfi. Ci volle soprattutto coraggio. L’intendenza venne al seguito.


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