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Si può dire che in agosto dello scorso anno è stato sventato -ad opera della “casta del Sud”- una sorta di colpo si stato in guanto di velluto. L’ opposizione al progetto “segreto” delle autonomia differenziata del Lombardo-Veneto ha imposto la caduta del governo giallo-verde. Zaia e Fontana hanno imposto al riottoso “capitano” di staccare la spina fidando su un ricorso alle urne che avrebbe sancito una maggioranza idonea a portare in porto il progetto, unico vero obiettivo del famigerato contratto di governo.

Quel progetto non è morto, riemergerebbe presto se e come andranno le elezioni emiliane. Un progetto teso a realizzare tante piccole patrie settentrionali federate tra di loro per governare il Paese e la “provincia subordinata” del Sud secondo il sistema estrattivo evidenziato dall’ “operazione verità” che -facendo giustizia di tante balle- quantifica oggi in 60 miliardi di euro le risorse in media annualmente dirottate dal Sud al Nord dal 2009, quando le regole di un mai realizzato federalismo cooperativo furono scritte nella legge 42 (anche nota come legge Calderoli).

Il progetto mira ad una uscita separata del Nord dalla sua crisi strutturale della quale non ama discutere se non per addebitarne i motivi al peso sempre più insostenibile di un Mezzogiorno al quale elargisce il mitico e inesistente “residuo fiscale”. Il Sud è in questo disegno un problema non più da abrogare ma semplicemente da eliminare (e la soluzione finale dal 2008 è già ampiamente in atto, via, disoccupazione, povertà, emigrazione e degrado demografico).

L’ operazione verità ci dice che questa soluzione non esiste, che essa è la sintesi in una di tante balle, riunite nella grande balla dell’insostenibile pesantezza del Sud per un Nord che continua imperterrito a rincorrere il “riprendere a crescere” seguendo la rotta del miope piccolo cabotaggio privo di analisi e di bussola preda del sovranismo regionale, estrattivo senza fantasia e visione.

La Grande Balla, dunque, è il punto di accumulazione di tante balle -piccole, medie, grandi, che la storia sciorina da oltre 40 anni.

All’origine c’è quell’indifferenziata condanna all’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, una Istituzione che in meno di venti anni ha imposto per la prima volta nella storia del Paese una rotta di unificazione economica consentendo (riforma agraria, industrializzazione esterna, emigrazione e infrastrutturazione) di farci correre in Europa più di Germania e Francia, portandoci al rango di quinta potenza economica mondiale.

Balla nella balla è la perla tuttora coltivata delle famose cattedrali nel deserto del Sud; scordandoci che grazie a loro ancora questo Paese ha una resilienza industriale che il localismo imperante dagli anni ’80 tra privatizzazioni maldestre, miti distretttuali e autopropulsività è riuscito solo in parte a smantellare. Una cosa ha però realizzato: la ghettizzazione del Sud (complice la Nuova Programmazione dal 1998) nel recinto dei Fondi Strutturali europei che va in parallelo all’ingegnosa -quasi meridionale- fantastica capacità del settentrione di estrarre risorse dalla Provincia subordinata.

E oggi che si torna confusamente a parlare di “Banca del Mezzogiorno” c’è una balla dalla quale è indispensabile salpare nella difficile navigazione: quella di fare i conti con la storia narrata sul crollo del sistema bancario meridionale: quello vero, Banco di Sicilia e ancor di più Banco di Napoli -banca di emissione fino al 1929- ben più antico del Monte senese, fucina di innovazione finanziaria fin dal 1500, primo Istituto ad avere filiali estere, che ha quotato il dollaro in Italia, liquidato con una “scandalosa” asta competitiva al prezzo di 63 miliardi di lire nel 1998 e rivenduto per 6000 miliardi di lire a inizio del 2000. Un’asta “scandalosa” pregiudiziale a una ricapitalizzazione del Tesoro per 2000 miliardi di lire del 1998 come previsto da una legge di salvataggio dalla crisi esplosa nel 1995. La vicenda dovrebbe essere nota nella sua genesi oltre che nella significativa dinamica che vide già nel 2000 il Tesoro incassare oltre 2200 miliardi di lire e nel 2016 dopo aver acquistato per decreto, al modico prezzo di 600000 la SGA – società che ha recuperato i circa 20mila miliardi di lire di crediti problematici- incassare un utile di altri 700 milioni di euro. A conti fatti il Tesoro dall’incresciosa vicenda Banco ha realizzato circa 900 milioni di euro oggi corsi in soccorso alle disastrate (queste si davvero) banche del virtuoso -Veneto di Zaia.

Gran parte di quei 900 milioni di euro spetterebbero, a norma dell’ articolo 2 della legge di salvataggio, ai vecchi azionisti (in primis la Fondazione -finora sostanzialmente inerte- allora Istituto Banco di Napoli detentore dell’80% delle azioni).

Ma la più grande balla è nella genesi di quella tanto deprecata crisi del Banco portata ad esempio di una mala gestio, quasi geneticamente meridionale. Dalle deposizioni in sede di Commissione bilancio del 1999 e da documentazione ufficiale di chi al Ministero dell’Industria curava la liquidazione dell’abolito (1993!) intervento straordinario risulta in tutta chiarezza che all’ origine del dissesto sta prorpio il…virtuoso Ministero del Tesoro che, realizzando una spericolata spending review del tutto illegale, nega per anni a 15000 imprese meridionali il rimborso assicurato da delibere degli incentivi relativi a loro investimenti e che come da prassi erano stati scontati in banca e -guarda caso- per la massima parte presso il buon Banco di Napoli!

Come commenta il responsabile di allora, un fallimento frutto di una spending review del Ministero del tutto anomala ed illegale, pilotata – così si dice – scegliendo di far pagare al patrimonio del Banco le inadempienze del Ministero.


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