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C’è la manovra vera, quella senza troppe pretese, che il governo ha inviato a Bruxelles. E poi c’è la manovra che servirebbe al Paese, quella che permetterebbe di recuperare il gap con il resto d’Europa, di far ripartire l’economia, di tornare ai livelli pre-crisi e di superarli. Quella manovra parte dalla metà più svantaggiata dell’Italia, da quel Mezzogiorno senza investimenti, dove è diventata prassi comune che i fondi europei vengano usati per finanziare le spese correnti.
La manovra che serve al Sud e all’Italia corregge questa stortura, riporta gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno lontano da quello 0,15% del pil (dati dei Conti pubblici territoriali) a cui sono ancorati oggi. Soprattutto riequilibra la spesa pubblica che oggi leva al Sud e dirotta sul Centro Nord oltre 62 miliardi di euro all’anno. Un numero di per sé preoccupante, che diventa drammatico se si guarda al trend in costante crescita: tra il 2016 e il 2017, infatti, il Mezzogiorno ha perso quasi un altro miliardo.
Cosa voglia dire questo, in termini di vita quotidiana, non è difficile da capire. Non bastano esempi virtuosi come quelli di Bari e Cosenza che, con l’aiuto dei fondi Ue, sono riuscite a rientrare fra le città con la migliore qualità della vita. Al Sud servono strade moderne, serve l’alta velocità che oggi si ferma a Napoli. Serve una sanità in grado di prendersi cura dei malati. Servono gli asili, perché come ha sottolineato il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, va bene lo sconto sulle rette, ma «al Sud bisogna costruirli».
SANITÀ DI SERIE B
Non è un caso che la sanità delle più ricche regioni del Nord attiri ogni anni malati da tutta Italia e che quella del Sud, al contrario, stenti. La differenza è nei numeri, in quelli del Servizio sanitario nazionale. Dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato poco meno di un miliardo in più (944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.
Se ci fossero ancora dubbi su chi abbia una sanità di serie A e chi di serie B, basta affidarsi ai rilievi della Corte dei Conti: «Nel 2017 – scrivono i magistrati contabili – con qualche lieve variazione rispetto agli anni dal 2012 al 2016, il 42% del totale delle risorse finanziarie per la sanità è assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% dalle Regioni del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali».
Anche se si usa come criterio di efficienza la quantità di personale a disposizione delle regioni, il Sud esce sconfitto. Con una popolazione inferiore a quella della Campania, il Veneto occupa circa 16mila sanitari in più. Il rapporto fra popolazione regionale e dipendenti del settore sanitario messi a disposizione nel Sud è sempre negativo. La Campania, pur avendo una popolazione pari al 9,6% del totale italiano, ha solo 31.503 addetti sanitari, equivalenti al 7,3%, con un saldo negativo del 2,3%. La Sicilia (popolazione pari all’8,3%) ha 30.801 addetti sanitari, pari al 7,13%, con un saldo negativo dell’1,2%.
INFANZIA NEGATA
Anche essere piccoli, se si nasce nel Mezzogiorno, diventa una fatica. In Calabria, i Comuni dotati di almeno un servizio educativo per l’infanzia da 0 a 6 anni sono appena il 6%. Per fare un confronto: in Friuli si arriva al 100%. Nessuna sorpresa se si tiene a mente che, grazie al trucco della spesa storica, molti Comuni dispongono di zero risorse per gli asili nido. E c’è di peggio: nonostante le regioni meridionali siano fra le più sismiche del Paese, a oggi risulta collaudato appena un edificio scolastico su due. E ancora: il 50% dei bambini meridionali sono a rischio povertà e dispersione scolastica. I numeri impietosi di un’infanzia negata.
LE INFRASTRUTTURE
Il gap infrastrutturale tra Nord e Sud è la misura della disparità tra le due zone d’Italia. Nel Mezzogiorno si contano meno strade, meno autostrade, meno binari, meno aeroporti, meno hub strategici. Al massimo, qualche porto in più attivo e produttivo come Gioia Tauro oppure Napoli-Salerno-Castellammare di Stabia. Meno infrastutture, in soldoni, significa meno scambi commerciali, meno movimento di passeggeri, meno indotto.
LA DIFFERENZA
Andando nello specifico, per saggiare la differenza, nel Meridione ogni impresa può contare su meno di 20 km di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest, con la Puglia fanalino di coda con appena 7,9 km per azienda.
A fare il punto, con il supporto di uno studio Nomisma, è stata l’associazione Agrinsieme. Partiamo dalle autostrade: a fronte di una media nazionale di 23 km ogni 1.000 kmq, nel Sud si scende a 20 km/1000 kmq, con la Basilicata ferma a 3 km/1000 kmq e il Molise a 8 km/1000 kmq.
Anche la dotazione di linee ferroviarie è inferiore nel Sud, con 36 km/1000 kmq nelle Isole, mentre a livello nazionale la media è di 55 km/1000 kmq.
Quanto al digitale, sebbene il Sud risulti di poco indietro alle macro-aree (accede a internet il 78% delle famiglie rispetto all’84% del Nord), più critica è la diffusione delle innovazioni tecnologiche nelle imprese. Sono state introdotte solo da poco più di un’azienda su 4, il 26%, mentre nel Nord si arriva al 40%.
Ed è l’agroalimentare a risentire più di altri settori di un simile gap di reti fisiche e digitali. Se invece passiamo alla gestione degli enti locali, ci si imbatte in situazioni finanziarie drammatiche: l’Anm, l’azienda di trasporti del Comune di Napoli, viene da un concordato col Tribunale per evitare il fallimento. L’Eav, la società regionale che gestisce Cumana e Circum che collegano la città all’area metropolitana tra mille disagi (ultimo due giorni fa con passeggeri costretti a camminare sui binari) è stata salvata dal governo cinque anni fa con 600 milioni di euro.
LA SPESA
La nota dolente è che sono stati persi almeno 20 anni, senza che la classe dirigente nazionale ponesse il problema di ridurre questo gap infrastrutturale e trasportistico al centro dell’azione politica. La spesa dello Stato si è ridotta negli ultimi anni a un misero 0,15 per cento del Pil: a ciò bisogna aggiungere che nessuna grande opera è in cantiere da Salerno a scendere. L’Alta Velocità arriva, appunto, fino a Salerno. Va assolutamente velocizzata la tratta Napoli-Bari, infatti gli utenti preferiscono i bus privati di Marino o Flixbus. Quanto alla linea tra il capoluogo campano e quello pugliese, basti pensare che la conclusione dei lavori è prevista nel 2025 per la tratta Frasso Telesino-Vitulano, nel 2026 per la Apice-Orsara. Risale al 28 giugno 2017 l’ultimo intervento chiuso in ordine di tempo con la messa in esercizio del nuovo tratto di linea Cervaro-Bovino: 23 km di raddoppio per un investimento economico di 270 milioni di euro.
NUOVI TRENI
Gli investimenti delle Regioni insieme a Trenitalia sui nuovi treni stanno dando i primi frutti. In Puglia saranno 43 i nuovi treni, di cui i primi a entrare in funzione nel 2019 saranno 3 Jazz, in Sardegna sono 26 i treni destinati alle linee Trenitalia e 15 Stadler per le ferrovie regionali Arst e infine in Sicilia sono 43 i nuovi treni, di cui i primi in arrivo nel 2019. In Basilicata, seppur anche in questo caso il dato mostri un trend in calo, ancora troppi convogli hanno più di 15 anni di età (il parametro usato da Trenitalia nelle “Carte dei servizi”), il 57,5%. In Basilicata troviamo ancora da finire la ferrovia Ferrandina-Matera, iniziata nel 1986 con uno stanziamento da 350 miliardi di vecchie lire: le ultime stime parlano di un completamento lavori nel 2022.
CAPITOLO SICILIA
Se scendiamo ancora più giù, in Sicilia, ci si imbatte in alcune incongruenze: le Fs detengono il monopolio della rete, concepita come prosecuzione di quella del continente e non come una metropolitana di superficie a se stante: da più parti si è chiesto infatti di liberalizzarla.
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