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In Puglia saranno 3.705 i docenti immessi in ruolo per il prossimo anno scolastico, in Emilia Romagna 7.409, in Veneto 8.962, in Campania appena 4.594, in Lombardia 19.678, in Piemonte 8.908, in Calabria 1.667, in Sicilia 3.241, nel Lazio 7.524. Nemmeno il Covid è riuscito a porre fine allo squilibrio negli organici scolastici tra Nord e Sud: anche a settembre negli istituti del Mezzogiorno il nuovo anno inizierà con cattedre vuote e provvisorie, per buona pace della continuità. Il divario non è stato colmato nemmeno questa volta, un’altra occasione persa: basti pensare che nelle scuole del Nord ogni professore, mediamente, insegna a 10 studenti; al Sud, invece, per ogni docente ci sono 13,5 alunni.

IL DIVARIO STORICO

Il rapporto studenti/professori – effettuato sui dati ministeriali – descrive il divario che c’è tra le due aree dell’Italia e conferma che anche nell’istruzione c’è un Paese che viaggia a due velocità perché dispone di risorse significativamente diverse.

Basti pensare che al Sud le scuole pubbliche – di ogni grado e livello – sono 2.528, il personale docente è di 231.051 unità: in sostanza, in ogni istituto scolastico sono impiegati in media 91 insegnanti. Al Nord, invece, le scuole sono 3.266 e i docenti 356.100: risultato, in ogni istituto lavorano circa 109 prof. Non solo: le classi sono più sovraffollate in Puglia, Campania e Calabria rispetto a Piemonte, Lombardia o Liguria. Infatti, mentre al Nord per 3.646.003 alunni ci sono 200.828 classi (poco più di 18 studenti per classe), al Sud per i 3.121.930 ragazzi ci sono 112.214 classi (il rapporto è di 27,8 alunni per classe). Quindi, nel Mezzogiorno ogni docente deve seguire contemporaneamente circa 10 studenti in più rispetto a una classe media del Nord. Con inevitabili ripercussioni sul percorso di studio.

LE IMMISSIONI

Nell’incontro con i sindacati per l’informativa sulle immissioni in ruolo svoltosi il 7 agosto, il ministero dell’Istruzione ha annunciato un contingente di 84.808 mila docenti, 11 mila Ata e 91 educatori, numeri che i sindacalisti hanno accolto con favore.

Ma andando ad analizzare la distribuzione territoriale più di qualcuno ha storto il naso: al Sud ovviamente. Secondo Claudio Menga, segretario della Flc Cgil Puglia, le immissioni in ruolo previste «sono ancora lontane dal coprire i posti scoperti per l’anno scolastico 2020-2021, che prevediamo essere più di 200 mila, dunque più del doppio delle stabilizzazioni annunciate. Mentre gli 11 mila posti destinati al personale Ata coprono semplicemente il fisiologico  turn over  e non tengono conto del ben più alto numero di posti vacanti. I 91 educatori infine, coprono poco più di un terzo dei 261 posti disponibili».

LE LAMENTELE

Il contingente di docenti riservato alla Puglia consiste di 3.705 posti, il 4% circa di quello complessivo nazionale. Almeno sulla carta, perché in realtà «i docenti immessi in ruolo dalle graduatorie di merito dei concorsi e dalle graduatorie a esaurimento – fa notare ancora il sindacalista pugliese – saranno, secondo i nostri calcoli, solo 2.124 (pari al 56% del totale dei posti disponibili), poiché si dovranno accantonare non solo i 1.467 posti per garantire i futuri vincitori dei concorsi banditi, con colpevole ritardo, quest’anno ma anche perché molte delle graduatorie da cui attingere sono ormai esaurite, a partire da quella sui posti di sostegno della scuola secondaria di primo grado».

Insomma, i docenti immessi in ruolo potrebbero essere anche meno di quelli ufficializzati. Di conseguenza, per la Puglia – ma il discorso vale per tutto il Mezzogiorno – si dovrà, ancora una volta, fare ricorso alle supplenze in maniera «abnorme», lamenta il sindacalista. Risultato? «Aggraverà tutte le difficoltà – da noi più volte denunciate – legate all’avvio di un nuovo anno scolastico già carico di incognite per l’emergenza sanitaria». Non a caso la Flc Cgil aveva, invano, tentato un dialogo con la ministra Azzolina per individuare una procedura più snella del concorso straordinario e assicurare i vincitori in cattedra già dal prossimo primo settembre. «Solo così – dice Menga – si sarebbe potuto evitare il massiccio ricorso alle supplenze, con buona pace della continuità didattica. Ma le nostre richieste non hanno avuto alcun accoglimento e, anzi, abbiamo assistito a un’ulteriore complicazione delle procedure concorsuali con ulteriore aggravio del prezioso lavoro svolto dagli uffici scolastici regionali e provinciali, da sempre alle prese con la grave e storica carenza di personale».

ATA E DOCENTI FISSI

Anche sul personale non docente, il cosiddetto personale Ata, ci sono significative differenze: nelle scuole del Nord sono impiegate 87.746 persone, al Sud 54.832. Questo significa che al Sud per ogni dipendente ci sono 57 studenti, al Nord il rapporto è di uno per 41 alunni. Pure sui docenti con contratto a tempo indeterminato andrebbe aperta una riflessione: rispetto al totale nazionale, il 39,4% dei docenti con una cattedra “fissa” lavora nelle scuole del Nord, mentre al Sud la fetta è solo del 28,6%.

In soldoni, nel Mezzogiorno ci sono più precari. Gli istituti scolastici del Mezzogiorno sono sempre più in difficoltà e, in questa situazione, anche il tempo pieno nella scuola primaria (ex elementare) diventa un miraggio. Figuriamoci organizzare due turni. Nel Mezzogiorno la fascia di bambini tra i 6 e gli 11 anni che può usufruire delle 40 ore settimanali è residuale e le differenze rispetto a Torino, Milano o Padova sono abissali. Eccettuato il Lazio, che con il 58,4% di classi a tempo pieno è la prima regione in Italia, nei primi sei posti della classifica ci sono solo Regioni del Nord: in Piemonte nel 57% delle classi c’è il tempo pieno, in Toscana la percentuale è del 55,6%, in Lombardia del 54%, seguono Emilia Romagna (53,1%) e Liguria (51%). Il distacco rispetto al Sud è ampissimo e incostituzionale: in Calabria solo il 28,5% delle classi garantisce 40 ore settimanali, ma la situazione è addirittura peggiore in Campania (22,3%), Puglia (appena il 18,7%), Molise (12%) e Sicilia (11,6%).

UN ANNO IN MENO

Numeri e statistiche ufficiali, elaborate dal ministero dell’Istruzione, davvero impietose. Dati che dicono che, alla fine dei cinque anni di elementari, è come se gli alunni del Nord fossero rimasti in classe un anno in più. Gli orari, infatti, si sviluppano da un minimo di 24 ore settimanali a un massimo di 30, anche se la media è di 27.

Il 33,6% delle classi elementari, infatti, svolge 27 ore di lezione a settimana. Solo, però, se si arriva a 40 ore settimanali si può veramente parlare di tempo pieno. Facendo la media, nelle regioni del Nord, complessivamente, sono garantite 38 ore settimanali; al Sud si scende a 30 ore. La differenza nell’orario settimanale, moltiplicata per i cinque anni scolastici, porta quasi a un anno di distanza in favore del Nord.

LE RISORSE

La questione tempo pieno a scuola è una di quelle che spacca in due l’Italia e le cause vanno rintracciate nelle risorse. Sino a quando gli organici al Sud saranno depotenziati non si potrà invertire il trend: per tenere le scuole aperte 40 ore a settimana occorre assumere al Sud più insegnanti. L’attuale normativa italiana, secondo quando definito dall’articolo 4, comma 3, del decreto del presidente della Repubblica n. 89 del 2009, prevede che la scuola primaria (6-11 anni) possa essere organizzata secondo vari modelli: il modello dell’insegnante unico, con 24 ore settimanali di attività didattica; mentre per il cosiddetto “tempo pieno”, caratterizzato da 40 ore settimanali di attività scolastiche, l’insegnamento è svolto principalmente da due docenti, che si alternano nella presenza in classe, ma alcune attività, come l’insegnamento di una lingua straniera, possono essere svolte da insegnanti con specifica qualifica. Quindi, occorrono più maestri.

Né è possibile immaginare alla ripresa di adottare ancora il sistema delle lezioni a distanza, un esperimento fallito al Sud durante il lockdown: in Calabria solo il 67,3% delle famiglie ha un accesso a internet a casa, e in Puglia, Sicilia, Molise e Basilicata non si va oltre il 69%, poco meglio la Campania con il 73,3%. Ma comunque meno rispetto all’80% del Veneto, al 79 del Friuli, al 79% di Lombardia ed Emilia Romagna. Da Nord verso Sud la percentuale di nuclei familiari connessi si riduce, la media nazionale è pari al 76,1%. Come si può immaginare di garantire pari diritto all’istruzione a queste condizioni?


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