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Il rigore di Jorginho

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LA PORTA del “sueño”, la Porta del Sol, l’hanno chiusa le mani di Gigio, Gianluigi Donnarumma da Castellammare di Stabia all’anagrafe, ai social @gigiodonna1, che ha guardato dove poggiava il piede d’appoggio di Morata e il pallone dell’ultimo rigore spagnolo (quello dopo sarebbe stato inutile alla conta) è stato suo.

La porta del sogno l’ha invece spalancata, il turno dopo, Jorginho, Jorge Luiz Frello Filho, da Imituba, Brasile, all’anagrafe, un quasi impercettibile colpo di freni nel dirigersi verso il pallone su dischetto, quanto è bastato per far perdere l’equilibrio al portiere Unai Simon, già precario di suo, e poi una carezza e non un pugno al pallone.

Era quasi mezzanotte, “a mezzanotte sai…”. E’ stato, l’altra sera, il momento “che la festa cominci”. Perché l’Italia tutta, mica solo i milioni (17 e passa secondo i dati sulla Rai) di telespettatori, che si sono innamorati di nuovo, questo aspettavano: spesso accade con lo sport, con la Nazionale di calcio particolarmente, e, nel loro più piccolo o più grande, con la squadra del cuore.

L’Italia di Mancini è il simbolo di questo ammore, di questa voglia di uscire dal lockdown, quello fisico appena passato e quello morale che ci chiude ancora. E’ l’aria fresca dell’82, via dagli anni di piombo. E’ il dna di noi italiani: diamo il meglio nel peggio, quando c’è da soffrire sappiamo come si fa, e poi esplodiamo di gioia. Così fu l’altra sera a Wembley: alzi la mano chi non ha voglia di ripartenza; chi non ha voglia di un’Italia che si risollevi con i suoi mezzi che spesso profumano di genio; chi non pensa che azzurro sia il colore di un Pnrr, un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (parola di moda), incarnato da questi ragazzi che prima hanno scelto il gioco, poi hanno mostrato di adattarsi a quello altrui.

Curiosamente, per restare nel tema, ci ha salvato il rigore… Ma dopo, solo dopo: prima bisognava spendere e spendersi, ed è quello chel’Italia calcistica ha fatto. La Spagna ha avuto il 70 per cento di possesso palla: diceva Liedholm “se ce l’abbiamo noi, non ce l’hanno loro”; ce l’avevano loro, però alla fine dei conti un altro Wembley ci aspetta, un Europeo chissà, giacché l’abbiamo vinto una volta sola. Era il Sessantotto: l’immaginazione al potere, cantavano i giovani di allora; ora cantano “pò, popopo, pò”, la musica di fondo del tifo. Che è la malattia di queste notti, una malattia buona, non come quell’altra che ci ha tenuto lontani dalla vita.

Questa Italia del calcio alla vita ci sta riportando, vada come vada la sera dell’11 luglio. Certo, ha ragione Roberto Mancini, che ogni volta sottrae, alla fine, una partita da quelle che restano: erano sei, poi tre, le più difficili e importanti, e adesso dice “ce ne manca una”.

Quanto ci mancava una partita come questa! Nessuno, neppure i maghi più maghi, sa come andrà a finire. Il pronostico nel calcio è sempre un azzardo, perché può succedere quel che altrove è impossibile e che non vinca il più forte, che poi in questo caso vai a sapere chi è. Quel che è certo è che l’Italia ha già vinto molto più di un “titulo”, molto più di un Europeo: ha vinto il cuore degli appassionati, vecchi e nuovi.

Perché questo voleva il cuore di tutti: uscire dalla nebbia, dalla mascherina, dai virologi. Il cronista arabo ha salutato il gol di Jorginho, che poteva essere brasiliano e giocare con Neymar, e invece ha preferito essere italiano e giocare con Donnarumma, cantilenando, secondo lo stile della radio carioca che ha migliaia di imitatori sotto ogni cielo e ogni Sky, “Bella ciao, ciao, ciao”.

La politica non c’entra, c’entra la voglia di tornare al pane quotidiano e dunque al quotidiano pallone. Non vedevamo l’ora, pure se le Cassandre che mai mancano cercano di intimidirci ancora. Staremo attenti, ma lasciateci sbandierare il tricolore.


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