Mario Draghi durante la conferenza stampa
2 minuti per la letturaA chi ha chiesto scusa, Mario Draghi? La conferenza stampa era già conclusa, e anche se era stata sollevata la questione del ritardo nella comunicazione delle dinamiche e delle ragioni delle ultime decisioni del Consiglio dei ministri, nessuno dei giornalisti aveva posto la questione in termini di colpa. Lo ha fatto il premier, dando l’impressione che fosse ben cosciente di dovere una giustificazione.
Ma se non era con i giornalisti, con chi Draghi ha inteso riconoscere l’errore? La conferenza stampa era seguita, in diretta, su un gran numero di media, pubblici e privati, e quindi il presidente del Consiglio deve aver sentito la responsabilità di rivolgere il suo “atto riparatore”, come ha inteso definirlo, direttamente ai soggetti investiti degli atti che in questo complicato momento politico-istituzionale si vanno compiendo.
Perché, allora, Draghi non ha parlato del Quirinale, che pure è al centro dell’interesse generale? Più che a un concettoso silenzio-assenso sull’interpretazione data alla conferenza stampa di fine anno, quel che poi ha detto sul governo, con ogni probabilità proprio per l’esperienza precedente, o per il surriscaldarsi dei rapporti politico-istituzionali, non sarebbe altra cosa.
Il messaggio del resto è stato netto: “Nella maggioranza, nonostante la diversità di vedute, c’è voglia di lavorare insieme, di ricercare decisioni condivise. Finché c’è [quella volontà] il governo va avanti bene”. Solo il governo? È indubbia la correzione di rotta rispetto all’assunto dello scorso 22 dicembre, quando Draghi aveva sostenuto che il governo avrebbe potuto andare avanti “indipendentemente” da chi avesse ricoperto la carica di presidente del Consiglio. E la dichiarata consapevolezza della sopraggiunta difficoltà di “ricercare l’unanimità”, ovvero l’unità, sembra tradursi nella acquisita coscienza che non si può governare nemmeno per interposta persona.
A maggior ragione il principio sembra valere per chi fosse chiamato a rappresentare l’unità nazionale dal Colle più alto. Per cui la condizione della partecipazione alla maggioranza solo se il governo dovesse continuare a essere guidato da Mario Draghi, posta da Matteo Salvini, su imput o almeno con l’adesione di Silvio Berlusconi, potrebbe essere un paradosso rovesciato sull’altra ipotetica maggioranza raccattabile tra i pezzi che gli elettori hanno voluto comunque minoritari e che nei primi quattro anni di questa legislatura la politica non è riuscita a mettere insieme.
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Ps. Il pensiero richiama tristemente l’ultimo atto politico di David Sassoli, motivato appunto dalla responsabilità dell’unità: non aveva accettato l’offerta del gruppo dei socialisti e democratici del Parlamento europeo di ricandidarsi nella seconda parte della legislatura per “non spaccare il fronte europeista”. Come chiamarlo, se non spirito di servizio?
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