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Un paziente in terapia intensiva

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«L’attenzione della sanità sul Covid-19 e la paura del contagio rischiano di vanificare i risultati ottenuti in Italia con le terapie più innovative per l’infarto e gli sforzi per la prevenzione degli ultimi 20 anni». Era stato profetico il grido d’allarme lanciato, in un’intervista al Quotidiano del Sud nel maggio scorso, dal prof. Ciro Indolfi, ordinario di Cardiologia all’Università della Magna Grecia. Sulla base di uno studio multicentrico condotto in 54 ospedali italiani, la squadra di cui faceva parte il prof. Indolfi aveva verificato una riduzione del 50% dei ricoveri per infarto miocardico nel 2020, durante il periodo pandemico.

LO STUDIO EUROPEO

Ebbene, quell’indagine è oggi confermata dallo studio europeo Covid (Isacs-Stemi Covid 19) sull’infarto acuto, partito da Novara nel mese di aprile.

«Se immaginiamo che in Italia muoiono ogni anno circa 50mila pazienti per infarto, in base ai nostri dati (ovvero incremento del 41% del rischio relativo di morte) è presumibile che il Covid possa contribuire indirettamente ad aumentare di oltre 20mila il numero di morti per infarto annui, numeri non molto lontani da quelli determinati direttamente dal virus. Moltiplicando i numeri su scala mondiale, si comprende bene la reale portata del problema». È quanto dice al Quotidiano Sanità il professor Giuseppe De Luca, docente di Cardiologia all’Università del Piemonte Orientale di Novara.

LA PAURA DEL VIRUS

«Piccoli registri eseguiti in Europa, in Asia e in America poco dopo l’inizio della pandemia, avevano mostrato una riduzione degli infarti acuti trattati, conseguenza del fatto che i pazienti, timorosi del contagio, avrebbero preferito rimanere a casa nonostante i sintomi piuttosto che andare in ospedale per curarsi», rileva il prof. De Luca. «Tenuto conto del rilevante impatto dell’infarto acuto sulla mortalità nei Paesi industrializzati, è evidente che questa condotta timorosa dei pazienti avrebbe potuto avere un drammatico impatto sul numero di morti per infarto a livello mondiale».

Lo studio, che ha coinvolto 77 tra le maggiori istituzioni europee nel trattamento dell’infarto acuto, ha mostrato che il numero dei pazienti con infarto sottoposti ad angioplastica primaria per milione di abitanti è notevolmente diminuito da 595 nel 2019 a 494 nel 2020, con una riduzione significativa del 19%.

La maggiore riluttanza a frequentare gli ospedali in periodo di pandemia ha portato molto più frequentemente le persone affette da un infarto a presentarsi in ritardo rispetto a quelli che sono considerati i tempi utili per poter riaprire la coronaria e salvare la parte del cuore ancora vivo nel territorio infartuato.

Si legge infatti nello studio che circa l’11,7% dei pazienti nel 2020 si è presentato oltre le canoniche 12 ore dall’inizio dei sintomi, rispetto al 9,1% nei pazienti del 2019, quindi con un incremento relativo, dopo aggiustamento, del 34%.

«Il ritardo al trattamento – spiega il professor De Luca – ci aiuta a capire il dato estremamente importante del registro, ovvero la più alta mortalità osservata nei pazienti trattati nel 2020 (6,8%) rispetto al 2019 (4,9%), ovvero un incremento relativo, dopo aggiustamento, del 41%».

LE CAMPAGNE DI SENSIBILIZZAZIONE

Il professor De Luca auspica campagne di sensibilizzazione e interventi logistici sul territorio per prevenire, in caso di nuova ondata di contagi, «una ulteriore strage di vittime, causata indirettamente da killer coronavirus».


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