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Una nota vagamente “tecnica” penso sia lo strumento migliore per illustrare uno degli aspetti del tema della perequazione che l’ operazione verità ha portato alla luce del sole in tutta la sua macroscopica urgenza grazie al contributo di documentazione dei Conti Pubblici Territoriali.
L’ evidenza dei mitici 60 e passa miliardi all’anno per il periodo 2000-2018 è un dato da analizzare con il massimo scrupolo perché è solo a valle di analisi accurate che si possono proporre le necessarie e rapide correzioni e, soprattutto, individuare un percorso operativo che consenta di ripristinare il rispetto della legge e della Costituzione. Si tratta, in parole povere, di liquidare il tradizionale metodo fin qui in uso del rinvio a messianiche attese (LEP, fabbisogni standard in regime di costi standard prevista dalla Costituzione e dalla legge 42/2009 sui quali va fatta finalmente una sintesi).
Il Paese non può continuare in queste sceneggiate rituali della commissione Stato-Regioni che, al motto ad impossibilia nemo tenetur , legittima la “provvisoria” spesa storica rivelatasi un formidabile, inerziale meccanismo di sistematiche sperequazioni territoriali. Se non si comprende che tutto ciò fa molto male non solo al Sud ma – alla lunga- anche alle nostre locomotive in ultradecennale affanno e si continua a equivocare su presunte richieste di risarcimenti, magari per contanti, senza voler capire che il “risarcimento” a vantaggio dell’ intero Paese è quello di ristabilire regole certe: quelle scritte e approvate dal Parlamento in applicazione della Costituzione.
Proprio in omaggio a questo spirito è più che legittima la pretesa di verificare se e quanto corretto sia misurare la sperequazione sulla base di un nesso logico “indiziario” fondato su una ragionevole aspettativa di coerenza tra quota della spesa e quota della popolazione nei diversi territori. Una ipotesi di lavoro che impone, dunque, una più che mai scrupolosa verifica.
È perciò benvenuto ogni serio contributo in merito. Non pare rispondere a questo auspicio il problematico argomentare del prof. Giovanardi recentemente apparso sul Foglio che elenca ben sei motivi per definire una “favola” la contabilità dei dati dei CPT ritenendo così di delegittimare l’ operazione verità.
L’esposizione dei sei errori non fa onore alla scienza del valido scienziato nella misura in cui propone considerazioni di buon senso strumentalmente adattate alla bisogna, senza quantificazioni di sorta, neanche indiziarie. Né incanta l’ insistere sul le itmotif del “diritto alla restituzione” esplicitamente accampato sui mitici residui fiscali per i quali – se non se ne è ancora reso conto – alla inconsistenza giuridica si accompagna la crescente inconsistenza quantitativa. In una recente – più conciliante – occasione il prof. giustifica il diritto alla restituzione sostenendo che la sua più sincera disponibilità ad “aiutare il Mezzogiorno” si scontra con il fatto che il Sud non cresce, anzi (in linea con una certa econometria à la carte) “muore di aiuti e di vana filantropia”.
L’unico serio motivo “tecnico” addotto per argomentare criticamente non certo per porre in dubbio la contabilità dei 60 miliardi concerne la spesa per la previdenza che, a suo dire, andrebbe totalmente esclusa dal novero della spesa pubblica.
Davvero curiosa l’ ultratempestiva sollecita adesione di Marco Esposito a questa tesi, “… perché è le pensioni sono una forma di reddito differito e lo Stato non può decidere a chi pagarle indipendentemente dai contributi versati”… aggiungendo che “… scomputare la previdenza dimezza la cifra …. che diventa 30 e non 60 miliardi” . Non che 30 miliardi all’anno siano pochi, ma è un fatto che risulta incomprensibile con quali criteri si possa fare questo calcolo e come si possa abbandonare l’unica cifra certa che sono i 60 miliardi certificati da CPT e sui quali gli argomenti sociologici fin qui addotti che non hanno nessuna forza documentale.
Il tema del come, quanto e se la previdenza sia rilevante o no nell’ operazione verità e come vada contabilizzata è certo serio e la versione del prof. Accolta da Esposito merita considerazione anche perché altri ben attrezzati tecnici informati dei fatti non sono per nulla inclini a sottoscriverla.
Una prima considerazione è che le pensioni sono liquidate attingendo al serbatoio delle contribuzioni dei futuri pensionati oltre che dallo stock esistente dei contributi versati (e in via di liquidazione) da quelli che via, via sono entrati nel mondo dei pensionati. Il fatto di attingere ai contributi versati non significa che quella previdenziale non sia da computare come spesa pubblica ma, semmai, di considerare con cura il meccanismo per il quale chi eroga le pensioni attinge alle disponibilità correnti (diciamo prende a prestito dai futuri pensionati oltre ad usare i contributi versati in via di esaurimento dei pensionati). Si tratta del metodo “a ripartizione” per il quale pago oggi prelevando dallo stock cumulato e in via di accumulazione per corrispondere le pensioni a soggetti che non alimentano più lo stock. La prima osservazione è che nel 2017 (Sesto Rapporto 2019) il saldo tra pagamenti ed incassi contributivi vede un deficit per le pensioni di 68 miliardi a tutto titolo da considerare spesa pubblica, perché posti a carico della fiscalità generale. Cioè il “fondo” si è rivelato insufficiente. Ma un altro motivo fa sì che è più che legittimo considerare spesa pubblica una parte significativa delle pensioni pagate anche se non eccedono il monte contributi. Si dimentica infatti di prendere in considerazione quella quota di prestazione che in passato e ancor oggi corrisponde alla “rendita” della quale fruiscono i percettori di pensioni (sia di anzianità che di vecchiaia) definite nel loro ammontare con il metodo retributivo e non con quello contributivo. Il che assicura il godimento (si fa per dire) di una pensione superiore a quella che sarebbe erogata facendo meramente riferimento ai contributi versati. Attualmente questo aspetto è assolutamente prevalente e rilevante per quello che riguarda lo stock di pensionati e tale si conferma nonostante la modifica introdotta dalla “riforma Dini” (1995) e poi nel 2012 del governo Monti che traghetteranno solo dopo il 2036 a un sistema contributivo integrale. Il prof Giovanardi lo sa o no? Dubito che non ne sia perfettamente consapevole.
Giuliano Cazzola che al tema ha dedicato profonde analisi si chiede se ” le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto” e rinvia a uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca per concludere che “i veri protagonisti dello «sbilanciamento» tra pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità… proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, ad ogni piè sospinto”. Nel quadriennio 2008-2012 risulta che quota non giustificata da contributi versati le pensioni di anzianità “… maturate (in media a 58,5 anni) da 486mila lavoratori dipendenti privati è in media pari al 28% su 12 miliardi di spesa”.
I percettori di pensione che hanno un introito superiore al teorico flusso “garantito” dai contributi versati sono per questa quota eccedente opzionalmente a carico della fiscalità generale. Dunque lo Stato, fino al limite della capienza ” prende a prestito ” quanto necessario senza pagare interessi dai futuri pensionati (fino a capienza del fondo contributi) per erogare le prestazioni da corrispondere ai pensionati inclusi ve di quel’ ammontare in eccesso che non hanno contribuito a determinare. Tutto ciò coinvolge le pensioni di anzianità e quelle di vecchiaia con una distinzione da sottolineare e che per molteplici ragioni ha un chiaro significato: quelle di anzianità sono corrisposte a una platea “più giovane” (il sopra citato “tesoretto dei lavoratori maschi del Nord”) che quindi godrà più a lungo un più ricco bonus che eccede il calcolo contributivo. Questa platea, grazie alle condizioni del mercato del lavoro di riferimento ha iniziato il percorso e quindi maturato in tempi più rapidi i requisiti conseguendo pensioni più elevate sia per la continuità che per la rapida entrata nel mercato del lavoro. Ben diverso ma sempre a carico della fiscalità generale è il privilegio riservato alle pensioni di vecchiaia (dove comunque il Nord prevale nettamente sul Sud) considerevolmente meno ricche riferibili a una platea relativamente più anziana proprio in conseguenza delle maggiori difficoltà di realizzare un percorso contributivo legato alle problematiche caratteristiche del “loro” mercato del lavoro. Ovvio che la “anzianità” premia il Centro-Nord con, di conseguenza, una sistematica differente incidenza sulla fiscalità generale riconducibile al “bonus” di cui sopra ed ai diversi tempi di fruizione. Ovvio che il metodo retributivo svanirà all’ orizzonte (in virtù delle riforma del 1995 e poi del 2012) più rapidamente nel caso della vecchiaia, più lentamente per la più giovane platea dei percettori di quelle di anzianità che, in aggiunta, gode di ammontati decisamente più elevati (e quindi più onerose per la fiscalità generale visto che il retributivo commisura la pensione alle ultime retribuzioni che – specie nel caso dell’ anzianità – è ben diverso e più elevato dalle retribuzioni di ingresso).
Una avvertenza è d’obbligo. L’ impatto della previdenza nel determinare squilibri ha una valenza del tutto particolare perché inscindibile dalle specifiche condizioni del mercato del lavoro, a loro volta condizionate dalla dinamica dell’economia. In questo caso quindi le distorsioni e i connessi rilievi sugli aspetti redistributivi non evidenziano certo una “negazione di diritti di cittadinanza” come avviene esplicitamente nel caso dei diritti alla mobilità, salute e formazione che, nell’esperienza del nostro sbilenco federalismo, sono frutto della non applicazione di regole che esistono. Nella previdenza, al contrario, gli squilibri nascono proprio dall’applicazione precisa e puntuale di regole, riforme, che si calano sui territori con il loro carico implicito di vantaggi e svantaggi. Evidentemente lo sviluppo dei territori è segnato dalle condizioni sia all’ingresso che all’ uscita dei mercati del lavoro locali, non fosse altro perché da esse dipenderà la facilità di accedere o meno a una pensione e se essa sarà di anzianità o di vecchiaia.
Nell’esperienza italiana occorre ovviamente fare mente locale sulla pessima evoluzione di performance di un Paese che, fino a che era su un sentiero significativo di crescita, poteva scaricare sulla fiscalità generale il finanziamento di “privilegi” differenziati. Oggi, a valle di oltre venti annidi stagnazione e crisi le differenze previdenziali a carico della fiscalità generale rappresentano un’ oggetiva sottrazione di risorse proprio rispetto all’obiettivo di promuovere lo sviluppo dei territori, a fare infrastrutture per connettere il Paese e recuperare la leadership nel Mediterraneo, ridurre le disuguaglianze e far crescere la coesione. Guarda caso proprio gli obiettivi ai quali con durezza ci richiama l’ Europa.
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Ho scritto un saggio sulle pensioni. Materia in cui tutti si esercitano senza conoscere le norme ed alcuni fanno DISINFORMAZIONE consapevole (nel mio saggio ci sono tutti i nomi e le prove documentali), propalando BUFALE ormai mondiali, che vedono come vittime anche tutti gli esperti.
Faccio tre osservazioni per amore di verità, in parte a malincuore perché apprezzo e condivido la battaglia contro il riparto iniquo, sperequato e incostituzionale basato sulla spesa storica, che favorisce il Nord e penalizza il Sud.
1. Metodo contributivo
La Riforma Fornero (DL 201/2011, L. 214/2011, art. 24) ha soltanto esteso il metodo contributivo, introdotto nel 1995 dalla Riforma Dini, a quelli che ne erano esclusi dalla stessa Riforma Dini, cioè coloro che, al 31.12.1995, avevano almeno 18 anni di contributi, tutti relativamente anziani e ormai tutti o quasi tutti già in pensione. Misura che ha realizzato un risparmio molto esiguo: appena 200 milioni a regime (2018), destinato a sparire a brevissimo.[1]
2. Importi lordi
Come ho già scritto in calce all’articolo del prof. Cazzola (https://www.quotidianodelsud.it/laltravoce-dellitalia/le-due-italie/2020/09/18/a-riposo-in-anticipo-e-sistemi-premiali-le-pensioni-regalate-abitano-al-nord/ ), va considerato che tutte le cifre sono al lordo di tre voci spurie, in primo luogo le imposte, poi l’assistenza e il TFR, per un ammontare complessivo di circa 90 mld. Come conferma lo stesso INPS (2018).[2]
3. Deficit pensionistico
Al netto delle imposte e dell’assistenza, non c’è un disavanzo pensionistico ma un avanzo, come confermano, tra gli altri, Felice Roberto Pizzuti e Alberto Brambilla.[3]
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[1] Valga a confermarlo il risparmio di appena 200 milioni a regime stimato dalla relazione tecnica del DL 201/2011 (“salva-Italia”) per tale misura, quantificato dalla RGS, relativamente al periodo dal 2012 al 2018, in, rispettivamente, (al netto fisco) 5, 24, 39, 70, 116, 169 e 216 milioni, numeri che dimostrano la scarsissima incidenza della misura, pari ad appena l’1 per cento circa del risparmio annuo accreditato alla Riforma Fornero e destinato ad azzerarsi a brevissimo.
«Estensione del sistema contributivo pro-rata dal 1° gennaio 2012 (i valori di economia del 2018 sono sostanzialmente quelli di regime destinati a ridursi nel tempo in ragione dell’eliminazione delle pensioni interessate dalla misura).» (Relazione tecnica, pag. 46).
[2] «Le pensioni vigenti al 1° gennaio 2019 sono 17.827.676, di cui 13.867.818 di natura previdenziale (vecchiaia, invalidità e superstiti) e le restanti 3.959.858 di natura assistenziale (invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali). Nel 2018 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 204,3 miliardi di euro, di cui 183 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali. È quanto emerge dall’Osservatorio sulle pensioni erogate dall’INPS che analizza i dati del 2018.»
[3] Il professor Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica Economica e di Economia e Politica del Welfare State presso la Facoltà di Economia della Università di Roma «Sapienza», nel suo articolo «Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere», evidenzia:
«L’analisi storica dei bilanci del sistema pensionistico mostra che le consistenti riforme della prima metà degli anni ’90 furono più che sufficienti a recuperare gli squilibri finanziari accumulati negli anni precedenti. Già dal 1996, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali è tornato ininterrottamente in attivo e nel 2016 è stato di circa 39 miliardi, pari al 2,3% del Pil (Tab. 1).»
Il dottor Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, autore del Sesto Rapporto 2019, in un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera e intitolato «Numeri corretti all’Europa per tutelare i veri pensionati», riportato dal sito di cui è presidente, Itinerari Previdenziali, scrive:
«I dati – ● La spesa per le pensioni per il 2016 è pari a circa 218 miliardi mentre i contributi sono pari a 197 miliardi: il deficit è quindi di 21 miliardi. Inoltre, se alle prestazioni togliamo le integrazioni al minimo e le maggiorazioni sociali (l’ex milione al mese di Berlusconi) che pure l’INPS mette tra le spese assistenziali, e senza considerare la quota assistenziale per i dipendenti pubblici pari a 8,1 miliardi, la spesa si riduce a meno di 208 miliardi. ● Ma quanto arriva davvero nelle tasche dei pensionati italiani? Poiché sulle pensioni, a differenza di altri paesi dell’Unione Europea, gravano le imposte che per il 2016 sono stati pari a quasi 50 miliardi, la spesa vera si riduce a poco più di 150 miliardi che rapportato ai contributi pagati dalla produzione (aziende e lavoratori) evidenzia un saldo positivo di oltre 30 miliardi.»