Il pagamento di una pensione
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Nel dibattito aperto sull’allocazione delle risorse che il governo ha “prenotato’’ in conto Recovery Fund si è aperta una certa dialettica tra le priorità territoriali dei progetti e degli interventi.
L’argomento non è affatto secondario, perché se è vero che il “motore’’ dell’economia sta nelle regioni del Nord (per questo motivo deve continuare a funzionare nel migliore dei modi possibili nell’interesse di tutto il Paese) è altrettanto vero che il salto di qualità che l’Italia deve compiere, grazie alle risorse rese disponibili da parte della Ue, riguarda un impegno per un effettivo riequilibrio e per una maggiore coesione territoriale.
IL DIVARIO
Nel dibattito è stata chiamata in causa la spesa pensionistica previdenziale e assistenziale. Alcuni economisti hanno riconosciuto che la quota maggiore della spesa per le pensioni è erogata al Nord, anche in rapporto al netto prevalere dei trattamenti di anzianità sostenuti da robuste e continuative storie contributive che consentono alle generazioni del baby boom di andare in quiescenza intorno ai 60-61 anni con prestazioni che, mediamente, sono di importo doppio rispetto a quello riservato alla vecchiaia.
Ovviamente non c’è nessun inganno: l’assetto del sistema pensionistico non è che la fotografia del mercato del lavoro, non di quello attuale, ma di quello di ieri. E quindi quanti hanno fruito – sia pure con fatica, sottoponendosi allo sradicamento dell’immigrazione interna, iniziando precocemente l’attività lavorativa, sopportando condizioni di lavoro assai critiche e integrazione sociale complicata (“Non si affitta ai meridionali!’’) – si trovano a vivere una quiescenza più serena (ma non troppo) sul piano economico, avendo davanti a sé un’attesa di vita in aumento, come mai prima nella storia dell’umanità.
I “nordisti’’ non negano il divario previdenziale con un Sud in cui prevalgono le prestazioni assistenziali (a carico della fiscalità generale e quindi dei contribuenti che pagano le imposte), ma rivendicano di trovarsi in questa situazione in conseguenza dei maggiori contributi versati. E pertanto di non avvalersi di alcun “privilegio’’.
LO SBILANCIAMENTO
E’ un ragionamento che fila, ma ci sono degli aspetti che è utile chiarire. Coloro che si sono guadagnati il diritto di usufruire del “pezzo pregiato’’ del sistema pensionistico, hanno potuto avvantaggiarsi pure del suo risvolto “premiale’’.
Mi spiego meglio avvalendomi della tabella pubblicata in basso, relativa ai flussi del primo semestre 2020 in confronto con quelli del 2019.
Come si può vedere il numero maggiore di pensioni erogate ha nel proprio montante contributivo una quota importante sottoposta al calcolo retributivo. Fino al 1° gennaio 2012, poi, la stragrande maggioranza delle pensioni era liquidata in regime retributivo.
Ma è vero che le pensioni di anzianità – tesoretto dei lavoratori maschi del Nord – sono coperte dalla contribuzione anche quando sono calcolate secondo il metodo retributivo o misto?
Uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca ha dimostrato che i veri protagonisti dello “sbilanciamento” tra pensioni contributive e retributive sono i trattamenti di anzianità, ovvero proprio quelli che vengono difesi e riproposti, magari sotto altre forme, a ogni piè sospinto. Considerando, come nello studio, le pensioni di anzianità maturate (in media a 58,5 anni di età) da 486mila lavoratori dipendenti privati tra il 2008 e il 2012, per un importo medio di quasi 2mila euro lordi mensili, la spesa per questa platea è stata di 12 miliardi di euro.
La parte non giustificata da contributi versati è in media pari al 28% e si concentra prevalentemente (in quota del 37% dei pensionati) nelle fasce con più di 2.500 euro mensili, che accumulano il 63% dello squilibrio totale.
IMPORTI INGIUSTIFICATI
Lo studio, pertanto, calcola che sui 12 miliardi di spesa circa 3,5 miliardi siano “non giustificati” dai versamenti contributivi. Lo squilibrio diminuisce nel caso di pensionamento di vecchiaia (al 15% medio) per effetto della più ridotta attesa di vita.
Aggiungendo anche le pensioni di anzianità (2008-2012) dei dipendenti pubblici, (il cui squilibrio tra calcolo contributivo e retributivo è valutato in 2,5 miliardi) la parte “non giustificata” sale nell’insieme a 6 miliardi. Il bello, però, deve ancora venire. Più aumenta l’importo dell’assegno (oltre 44mila euro l’anno) più si riduce la parte “non giustificata”, perché sul valore dell’assegno opera la rimodulazione al ribasso dei trattamenti più alti fino a ridursi al 5% per pensioni intorno ai 12mila euro lordi mensili. Il grafico in alto evidenzia questo stato di fatto.
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Ho scritto un saggio sulle pensioni. Purtroppo, nella versione digitale dell’articolo del prof. Cazzola, non c’è la tabella, né sono esplicitati i contenuti qualitativi delle cifre; commento perciò al buio, ma, ricorrendo questo “errore” in tutte le analisi (anche di Stefano Patriarca, con il quale ho avuto un lungo scambio di email nel febbraio 2018), con un certo fondamento.
Mi riferisco all’inclusione nell’importo della spesa pensionistica (280 mld complessivi) di alcune voci spurie, per un ammontare complessivo di circa 90 mld: (i) in primo luogo le imposte (55 mld); poi (ii) l’assistenza (circa 20 mld); e (iii) il TFR (circa 15 mld).
Come è confermato dal Rapporto INPS relativo ai dati netti 2018:
«Le pensioni vigenti al 1° gennaio 2019 sono 17.827.676, di cui 13.867.818 di natura previdenziale (vecchiaia, invalidità e superstiti) e le restanti 3.959.858 di natura assistenziale (invalidità civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali). Nel 2018 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 204,3 miliardi di euro, di cui 183 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali. È quanto emerge dall’Osservatorio sulle pensioni erogate dall’INPS che analizza i dati del 2018.»
Ovviamente, anche tutte le analisi riguardanti le pensioni sono inficiate dalle predette voci spurie, come impone il criterio di classificazione vigente in forza di legge e che vale per tutti i Paesi UE. Ma va tenuto presente che (i) le imposte sulle pensioni italiane sono le più alte sia in ambito UE che in ambito OCSE (valgono quasi 3 punti nel rapporto spesa pensionistica/PIL, pari ufficialmente al 15,8%); e (ii) il TFR è una caratteristica quasi esclusiva dell’Italia.
Al netto delle voci spurie, l’incidenza della spesa pensionistica (183 mld) sul PIL (1.753 mld) scende al 10,4%.