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Finalmente abbiamo riaperto le scuole, ma la mappa delle riaperture offre un quadro plastico della situazione italiana. Mentre le regioni del Centro- Nord, sia pur tra mille difficoltà, hanno aperto insieme il 14 settembre, il Sud rimanda l’apertura o come la Sicilia apre solo le scuole superiori. La programmazione scolastica è competenza delle Regioni, che decidono la data di inizio delle lezioni in ragione delle condizioni materiali in cui ogni contesto locale si muove, in base alla disponibilità di locali, di insegnanti, di strutture e quindi è ancor più evidente che questo ritardo denuncia una situazione di svantaggio strutturale che è di fronte agli occhi di tutti.
Oggi tutti stanno correndo per accumulare progetti su progetti da finanziare sul Recovery Fund, ma questa situazione, oggi conclamata dall’evidenza di un Paese spaccato in due, richiede che la progettazione dei massicci investimenti, che si stanno promettendo in vista dei Fondi europei, partano da quelle situazioni che più gridano che l’Italia non può più avere due velocità, perché proprio questo diviene il limite principale della ripresa economica dell’intero Paese.

Continuare a mantenere questa separazione nei percorsi di sviluppo tra Nord e Sud diviene un vincolo per tutti, comprese le regioni del Nord-Italia, che si presentano alla competizione europea ed internazionale senza un mercato interno capace di sostenerne autonomi processi di crescita ed innovazione.

Investire in scuola vuol dire non solo mettere in sicurezza i vecchi edifici scolastici, o portare la fibra per poter disporre delle tecnologie digitali, né basta inondare le scuole di tablet, vuol dire ripensare gli spazi educativi. In Italia ci sono circa 58 mila edifici scolastici e solo meno di un terzo è stato costruito dopo il 1976, cioè quasi mezzo secolo fa, quando una bella scuola era data da un corridoio ed una fila di porte da cui non si sentiva volare una mosca, perché oltre quelle porte i ragazzi erano inchiodati nei loro banchi, dentro un’aula, i cui muri separavano la scuola dall’ambiente esterno.

Quelle aule, quegli spazi chiusi, anche se oggi riempiti da nuovi banchi con le rotelle, rimangono immagine di una scuola del passato, mentre i nuovi spazi educativi flessibili rispondono all’esigenza di classi che sono ormai gruppi di apprendimento aperti a nuove esperienze, sempre più legate al territorio.

Ripensare le scuole come luoghi di apprendimento adeguati all’epoca che si sta aprendo vuol dire ridisegnare gli spazi urbani e quindi fare della scuole i nuovi centri della comunità locale.

Di questo certamente c’è bisogno in tutto il Paese, ma non in tutto il Paese c’è lo stesso bisogno. Per questo è necessario ripartire dalle condizioni più arretrate, dalle aree interne marginali, così come dalle aree metropolitane del Sud, ripartire da quella parte d’Italia che visibilmente negli ultimi dieci anni è stata posta al margine prima dall’ondata di individualismo poi di populismo che ha segnato questi anni fatui.

Un grande piano di architettura scolastica vuol dire pensare ad una scuola, che non sia sempre appesa all’ultima ordinanza ministeriale, ma possa sviluppare una propria offerta didattica legata ai problemi veri dei territori in cui sono poste. Ci sono già molti esempi anche nel Mezzogiorno di scuole che sono riuscite ad affermarsi come riferimenti positivi del loro territorio, ma che richiedono continuità anche aldilà della volontà ed a volte dell’eroismo – sì, a volte dobbiamo parlare di eroismo- dei loro dirigenti e dei loro insegnanti.

Un grande piano nazionale che riprogetti e realizzi una rete di scuole per i tempi innanzi a noi, che ne garantisca insegnanti preparati per una scuola aperta ed inclusiva, che non abbia paura del nostro futuro è il principale investimento che l’Italia deve fare oggi per il proprio Mezzogiorno, per garantire a tutto il Paese un percorso di crescita almeno pari a quello europeo.


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