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Rinascono le partecipazioni statali. A venti anni dalla privatizzazione dell’Iri, con una lunga riunione notturna, il Governo Conte si è inventato la nuova via italiana all’impresa di Stato.
L’Iri era stata inventata da Alberto Beneduce nel gennaio 1933 per acquisire le tre banche miste fallite dopo la crisi del ’29 – Banca Commerciale, Banca di Roma e Credito Italiano – e con queste tutte le imprese da queste possedute, con la visione di riprivatizzare quanto prima queste aziende, che erano il corpo centrale della nostra industria pesante, acciaio, navi, treni e armi.
IL DILEMMA
Nel 1937 apparve chiaro che nell’Italia di allora non vi erano capitali e competenze sufficienti per tornare al mercato.
Nel 1946 alla Costituente si ebbe un grande dibattito se mantenere o meno quello strano sistema in cui un ente pubblico – l’Iri – possedeva la maggioranza di imprese private, anche parzialmente quotate in borsa.
Mentre la sinistra voleva lo scioglimento di quella eredità del precedente regime, il tema venne sciolto dai due maggiori manager delle imprese private e delle imprese pubbliche. Vittorio Valletta, padrone per procura della Fiat, e Oscar Sinigaglia, presidente di Finsider, confluirono su una linea che rappresentò l’asse portante del boom economico, che portò nel dopoguerra l’Italia nell’industrializzazione.
L’Italia è un Paese arretrato da ricostruire – si diceva – occorre una impresa privata che si impegni nella produzione di beni di consumo per un Paese in crescita, ma occorre una impresa pubblica che garantisca materie prime e semilavorati per un verso e grandi infrastrutture per l’altro, in altre parole agli uni le auto, agli altri le autostrade.
E infatti nel 1950 l’Iri costituisce la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa con il compito di dotare il Paese di una grande rete autostradale, al di là delle poche “strade per automobili” costruite prima della guerra.
L’INTESA CON ANAS
Nel 1956 venne firmato l’accordo con Anas per costruire l’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli, raccogliendo fondi sul mercato dei capitali, che venne aperta fino a Napoli nel 1964, e che presto divenne l’emblema della nuova Italia, che aveva lasciato dietro di sé la ricostruzione.
Dopo di allora la lunga congiuntura – come allora si diceva – aprì la stagione di stop-and-go e della continua frana delle imprese italiane, che per evitare il default venivano acquisite dall’Iri, che da qui divenne uno strumento buono per tutti gli obiettivi, dalla gestione delle grandi reti al salvataggio di ogni “anatra zoppa” a interventi nel Mezzogiorno, costruendo fabbriche anche laddove non vi erano le condizioni ambientali necessarie.
IL QUESITO DELLA STORIA
E qui sta il tema che la storia pone a questo esecutivo che sembra avere nella memoria più un inutile peso piuttosto che un necessario sostegno alle decisioni.
Questa operazione con cui Atlantia acconsente, sotto la dura scure della revoca delle concessioni, di cedere a Cdp la sua quota, che poi la riverserà sul mercato dei capitali, deve rispondere al quesito che la storia propone: quale disegno per lo sviluppo del Paese? Quale ruolo questa società privata a partecipazione statale avrà nello sviluppo del sistema infrastrutturale italiano ed europeo?
Una netta visione strategica, e di conseguenza un mandato netto sullo sviluppo infrastrutturale del Paese devono mettere del resto la stessa Cassa depositi e prestiti al riparo dal rischio di garantire il salvataggio obbligato di ogni impresa fallita in Italia, a partire dai 149 tavoli di crisi al Mise.
Qui le persone contano e dunque diviene necessario ritrovare un pensiero strategico, in cui le nuove partecipazioni statali siano strumento per lo sviluppo e non come risposta per coprire le vacuità della politica e dell’imprenditoria italiana.
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