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Le mascherine? C’è il rischio che diventeranno come la polenta o il Lambrusco. Specialità del Nord. Di origine controllata, made in Lombardia. Dei 50 milioni 195mila euro previsti dal decreto Cura Italia per riconvertire le aziende e spingerle a produrre dispositivi di protezione, ben 9 milioni 856.515 sono andati infatti a imprese lombarde. Prima del Codiv-19 producevano altro. Alla Basilicata, per dire, ne sono andati solo 960.700 mila, alla Sardegna 567mila, alla Calabria 1 milione 431mila, al Lazio 1.224.455mila. Insomma, la parte del leone, come al solito, l’ha fatta la nostra locomotiva. Finita in panne, come sappiamo, ma pronta a ripartire di slancio.
LA LEZIONE NON È SERVITA
Il grafico è disponibile sul sito di Invitalia.it: il 20% del budget complessivo è andato alla Lombardia. Alimenta il sospetto che l’esperienza drammatica che stiamo vivendo non abbia cambiato niente. La lezione del coronavirus, insomma, non è servita. Tutto, anche la produzione di dispositivi di protezione, continuerà a concentrarsi entro lo stesso perimetro industriale, sovrapponibile, guarda caso, alla diffusione del contagio. E agli altri? Le briciole.
Le domande presentate e accolte dall’Ufficio del super commissario all’emergenza Domenico Arcuri sono state in totale 107. Con l’unica eccezione della Campania, che se n’è vista accogliere 13, il“ ”visto si finanzi” è andato a Lombardia, 17; Toscana, 14; Emilia-Romagna, 11; Marche e Puglia, 8; Abruzzo e Umbria, 5; Sicilia, 3; Basilicata, Sardegna e Piemonte, 2, Liguria, 1. Settanta domande hanno riguardato la riconversione, 37 l’ampiamento dei locali.
Di mascherine ne servono diverse decine di milioni al giorno. Un business non da poco. E la truffa è sempre in agguato. Si va da aziende improbabili, pronte a sfruttare il momento, alle mascherine con il marchio Ce, che, però, non vuol dire certificate in Europa ma China export. Produrle al Nord vorrà dire intasare un’area già congestionata. Senza dire che al Mezzogiorno un po’ di posti di lavoro in più, diciamolo, non avrebbero fatto male.
Sono scesi in campo i colossi: Armani e il gruppo Prada-Montone, inizialmente a scopo benefico. A ruota gli altri: Fippi Spa di Rho; Malex di Correggio; Nuova Sapi di Casalgrande; Md Massaflex di Massa Carra, che fino a ieri produceva materassi. E si è mosso anche il mondo della Legacoop, con 12 cooperative dedicate, In Veneto, tra le prime a riconvertirsi alla produzione di mascherine la veronese Quid.
MASCHERINE DI STATO. A CHI?
Ancora da definire resta la questione delle macchine che serviranno per la produzione. Lo Stato ne ha acquistate 51. Le prime 17 verranno consegnate in comodato d’uso a 4 aziende di cui ancora non è noto il nome.
Quando il Paese diventerà autosufficiente – sempre troppo tardi, purtroppo – il Mezzogiorno continuerà probabilmente a dipendere in gran parte dal Nord. E non viceversa. Occasione persa o solito strapotere?
Ci sarebbe anche da dire che le aziende riconvertite sull’onda dell’emergenza lasceranno ai concorrenti consistenti quote di mercato. Più dispositivi facciali per difendersi dal virus malefico vuol dire meno capi di abbigliamento o meno altro che si produceva prima. Non era meglio, una volta tanto, puntare sul Sud, isole comprese?
LA PROPOSTA DEI DOCENTI SARDI
Da questa considerazione è partita forse la proposta del giurista Giuseppe Valditara, dell’Università di Torino e coordinatore di Lettera 150, un gruppo di docenti che si sta battendo per rallentare la corsa alla riapertura e uscire in sicurezza dal lockdown.
La drammatica carenza di tamponi e reagenti e la chiusura dei mercati internazionali a seguito dei divieti di esportazione rendono sempre più urgente la necessità di pensare a una “produzione statale” di presidi strategici, come appunto le mascherine. E cosa propongono il professore e i suoi colleghi? «Di localizzare la produzione in aree naturalmente protette come Sardegna e Sicilia», anche perché così si potrebbero «rivitalizzare aree economicamente depresse oltre a garantire l’autosufficienza del Paese». Già. È cosi difficile?
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