L'ospedale San Raffaele di Milano
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«Purtroppo è un giro vorticoso. E tutto si conclude sempre allo stesso modo: con una visita o un’analisi in una struttura privata. È la logica di mercato, quello che accade dopo aver spezzettato la sanità pubblica in 21 Regioni diverse. Non abbiamo più qualcosa che ci unisce, una cornice nazionale».
Enzo Scafuro, segretario regionale lombardo del Sindacato medici italiani (Smi) è da sempre in prima linea. Ha criticato l’ecosistema-Milano in tempi non sospetti, quando se ne parlava come un modello da imitare. Molto prima che gli ospedali finissero sotto stress e la città rischiasse di trasformarsi una gigantesca zona rossa.
«Abbiamo iniziato eliminando gli infermieri, poi i medici, quindi bloccando le assunzioni. Non ci lamentiamo, dunque, se ora siamo stati costretti a richiamare in servizio gli anestesisti pensionati. La riforma è fallita».
LE CONVENZIONI
Stiamo parlando del modello-Lombardia. Il volto di Don Verzé, presidente e fondatore del San Raffaele. Una riforma sperimentale varata con la legge regionale 23/2015. Per l’occasione vennero usate parole grosse, «universalità e solidarietà», un modello organizzativo sul territorio originale. Unico. Stabiliva il diritto di libera scelta. Pubblico e privato sullo stesso piano nell’erogazione delle prestazioni.
Risultato: nel pubblico file e liste d’attesa, mesi per un ricovero o per una visita specialistica. E il boom delle strutture private. «Li abbiamo visti nascere e moltiplicarsi, certi laboratori. Da un giorno all’altro, ormai qui a Milano ce n’è uno ogni 500 metri. Tutti convenzionati. E una volta entrato, il paziente non lo mollano, viene per così dire “ fidelizzato”. La radiografia? Non basta, serve anche la risonanza. E perché non un’ecografia? Ci sono esami che costano quanto il ticket, solo che, invece di aspettare mesi si fanno subito. Lei cosa farebbe? Andrebbe dal pubblico o dal privato?».
Non più di due settimane fa il dottor Scafuro ha preso carta e penna e ha scritto al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, chiedendo di incrementare del 50% i posti letto di terapia intensiva e del 100% di pneumatologia. Strutture accreditate per ridurre la pressione sulle strutture pubbliche. Pool di anestesisti rianimatori, un protocollo per i tamponi, sicurezza per gli operatori sanitari. Un lungo elenco di richieste.
RIFORMA FALLITA
Succede a Milano. Capitale dei viaggi della salute, nella Lombardia che accoglie il 20% dei pazienti internazionali, seconda regione europea per numero di addetti nel settore della farmaceutica, prima regione italiana per investimenti nella ricerca.
Ma dietro questa crescita esponenziale, in dissolvenza, correva un meccanismo distorto. Si doveva capire prima? «Investire oggi nella prevenzione avrebbe significato avere meno malati da curare domani, invece si è preferito inseguire i privati sulla patologia abbandonando la prevenzione», spiega ancora il segretario regionale Smi che ha portato in tribunale la Regione Lombardia per la delibera di affidamento dei casi cronici alle strutture private.
Chi ha vissuto molto da vicino quel passaggio “storico” della sanità lombarda è stata Beatrice Lorenzin, ex ministro della Salute dal 2013 al 2018, prima nel governo Letta e successivamente con Renzi e Gentiloni e ora deputata dem.
Per spiegarlo parte da lontano: «La riforma del titolo V doveva essere la soluzione a tutti i mali, specie per il Sud. A distanza di 20 anni registriamo invece il sostanziale fallimento della riforma “mancata” del 2000. Mancata perché mai accompagnata dall’individuazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, dei fabbisogni e di un adeguato finanziamento delle amministrazioni e del servizio sanitario nazionale, in particolare al Sud».
Al Nord il modello-Milano. Al Sud il modello-commissariamento per rientrare dall’esplosione del debito e i viaggi della speranza.
«Ha funzionato poco e male riprende Lorenzin – inseguendo il pareggio di bilancio e ignorando di fatto i Lea e l’avanzamento del sistema delle prestazioni nelle regioni. La dimensione ragionieristica e un sistema di regole restrittive su personale e investimenti ha reso le regioni in piano di rientro sempre più deboli».
I RIMBORSI
Come uscirne? «Non possiamo tornare indietro, ma possiamo guardare avanti capendo che la spesa in sanità è un investimento sociale ed economico e non un costo. Va adeguato il finanziamento ai reali bisogni. Occorre dotarsi di meccanismi che consentano di monitorare l’applicazione dei piani diagnostici e terapeutici e cambiare i modelli di commissariamento. E bisogna realizzare nuovi Irccs nel Sud per potenziare la crescita e il trasferimento tecnologico attraendo personale altamente qualifica e risorse»:
Ci sarebbero poi i rimborsi alle strutture private. Un mondo di numeri tutto ancora da scoprire. Ogni regione, in virtù del citato articolo V, può rivedere le tariffe stabilite con un decreto nel 2012 dal governo Monti. I privati convenzionati ricevono per una prestazione lo stesso rimborso di un ospedale pubblico. Si tratta spesso di strutture equiparate al pubblico senza averne i requisiti. Stiamo parlando di circa 27 milioni di prestazioni l’anno. Mica bruscolini. Nella Regione Lombardia sono parte integrante del sistema sanitario. Un settore che genera ricchezze e profitti. Posti letto di elevato livello. Un modello che ha paura dei colpi di tosse.
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