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Il coronavirus rischia di essere la metafora dell’attuale fase del mondo. Un mondo globalizzato in cui tecnologie sempre più possenti e pervasive non riescono a controllare il diffondersi di una epidemia che si trasmette con il respiro degli incontri quotidiani, in un bar, in una farmacia, in una stretta di mano, dalla Cina profonda fino ai paesotti della bassa Lombarda o delle colline venete.

Un mondo il nostro che è tanto globalizzato che perfino Mister Trump in ogni sua azione deve tener conto della limitatezza dei suoi poteri, perché i suoi sottoposti da Google ad Amazon si muovono su scenari di mercato che eccedono ogni potere nazionale, perfino quello del governo degli Stati Uniti, il quale giocando in difesa riscopre la via della chiusura, della protezione, del tentativo di ristabilire confini dentro i quali di mostrare la sua autorità.

In verità in questi venti anni dagli accordi di Doha, che rappresentano l’inizio della globalizzazione, con la fine del vecchio Accordo sulle tariffe e sugli scambi, nato nel dopoguerra e la nascita del Wto, è progressivamente declinato il mito del mercato che per se’ avrebbe dovuto garantire al meglio lo sviluppo del mondo. Si sente oggi un bisogno di livelli di governo che siano della stessa dimensione dell’estensione di mercato in cui si muove l’economia globale. Bisogna ritrovare autorità che garantiscano i cittadini contro lo strapotere di imprese che si muovono su una dimensione globale, mai vista in precedenza. Imprese che possiedono tutti i nostri dati, dati che- come si è visto nella vicenda di Cambridge Analytica possono anche influenzare le decisioni politiche a livello di singoli stati. Imprese che però nulla possono contro il più invisibile dei nemici, che oggi con forza ha preso le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, e che sta mettendo in crisi la Cina e domani il resto del mondo.

Oggi, l’imprevedibile, ma non troppo, coronavirus trova il mondo intero in preda ad un panico, che non deriva dal possibile esplodere di una emergenza sanitaria, ma dalla incredibile impreparazione ad affrontare un rischio di pandemia, quasi che le istituzioni internazionali e i presidi nazionali si fossero liquefatti nella speranza che il mercato finanziario, il mercato dei servizi, il mercato del sapere potesse allontanare da noi l’amaro calice del garantire il bene collettivo contro ogni evenienza.

E qui, senza nessun desiderio di polemica, vorrei porre in evidenza le difficoltà della Lombardia e del Veneto – dopo anni di politiche volte a sostenere il bisogno di una ampia privatizzazione della sanità- nell’affrontare problemi che dobbiamo assegnare al più pubblico dei beni, cioè la sicurezza sanitaria, l’igiene pubblica, attività assegnate per definizione alla rete dei servizi pubblici e non delegabile a pur prestigiosi centri di ricerca e cura privati.

Allora è tempo di ripensare al ruolo dello stato in un mondo aperto e strettamente interconnesso, in cui le persone possono viaggiare attraverso e dentro i paesi, scambiarsi dati o strette di mano, ed in cui bisogna ritrovare livelli di garanzia – dal livello globale fino alla bassa lodigiana – in cui i diritti di base, e quindi l’eguaglianza di fronte all’imprevisto – vengano assicurati, senza ricorrere alla caccia all’untore o alla improbabile chiusura e messa in stato di assedio di intere aree.

Forse è tempo che la più antica delle paure – quella del contagio che si diffonde attraverso la “mala-aria”, come si diceva un tempo- porti i governi, dalle regioni, a Roma, da Roma a Bruxelles, fino agli organismi internazionali, a riporre al centro della loro agenda la loro responsabilità verso le loro popolazioni.

Che almeno il terrore per la nuova peste porti tutti a cercare il senso del bene comune e richiedere ai governi di uscire dal loro torpore e rispondere uniti a questo forte richiamo alle loro responsabilità.


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