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Infrastrutture e investimenti. In Calabria le ferrovie sono state abbandonate

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Sembra la madre di tutte le battaglie elettorali quella che si è chiusa. E che da essa debbano dipendere le sorti del Governo centrale, i prossimi anni di sviluppo economico, la posizione dell’Italia nel mondo. La prima valutazione che si può fare dalle affluenze alle urne è che i Paesi sono due anche al seggio elettorale.

Da un lato, l’Emilia Romagna, nella quale la voglia di partecipare, la fiducia di poter incidere sul futuro proprio e dei propri figli risulta forte e quindi, in un momento di grande contrapposizione, ci si mobilità per una idea di futuro diversa; dall’altra parte la Calabria dove una bassa partecipazione è dimostrazione di una disillusione esistenziale, della certezza che il voto non potrà cambiare nulla e che quindi è anche inutile partecipare.

Da una parte una regione nella quale lavora una persona su due circa, dall’altra nella quale solo una su quattro. Una che attrae capitale umano dalle altre regioni, l’altra con circa 15.000 persone, spesso formate, che ogni anno vanno via, spesso per sempre. Una con l’alta velocità che la collega a tutto il mondo, l’altra isolata sia verso Nord che verso il Mediterraneo, deserto di montagne spesso impossibile da attraversare, malgrado l’autostrada finalmente completata con decenni di ritardi, verso una Sicilia separata da tre chilometri di mare e da ore di attraversamento.

Con un porto tra i meglio attrezzati d’Europa, Gioia Tauro, sottoutilizzzato, perché mancano 400 km di ferrovia per Salerno che nessuno ha pensato fossero necessari. Una Regione che il Paese ritiene marginale e periferica, alla quale destina risorse pro capite molto contenute. Parte di quello stivale che un Paese nord-centrico avrebbe deciso di far affondare nel suo sottosviluppo, convinto che sia solo una zavorra inutile e dannosa. Anche in campagna elettorale si è notato come ci si sia concentrati sulla parte ricca e produttiva.

È proprio un approccio che va avanti da anni e che divide il Paese in cittadini di serie A e serie B, quelli a cui tutto è dovuto, perché bravi, produttivi, efficienti, ed europei, in contrapposizione ai calabresi, ma in generale a tutti i meridionali, che vivono alle spalle del Paese, delle pensioni sociali, del reddito di cittadinanza, del sommerso, della criminalità. Ci hanno creduto persino gli stessi calabresi, scoraggiati e disillusi, che hanno capito che sarà difficile schiodare dalle stanze del potere la classe dominante estrattiva che li governa e che al di là delle appartenenze di volta in volta diverse alla fine continua a gestire la regione per i propri clientes, in accordo con la classe dirigente del Paese che utilizza i voti dei gruppi di potere locali, lasciandoli liberi di scorrazzare nella Regione come fosse una colonia dell’impero.

Mentre le nuove classi dirigenti di importazione che si propongono per il nuovo /vecchio governo dell’area hanno una idea di sviluppo per questi territori di agricoltura e turismo degli anni 70-80. Ma il piccolo particolare che sempre più sta venendo fuori è che al di là delle aree che si volevano far affondare, sperando che il Nord si potesse salvare, le evidenze dimostrano che il processo si è fermato e che le grandi locomotive nazionali stanno per andare in un binario morto. Diventando solo i terzocontisti della realtà produttiva germanica, senza un mercato interno, sempre più impoverito, dimenticando la posizione strategica geografica unica, per avere la quale Cina, Turchia, Usa si contrappongono nel Mediterraneo, mentre noi che la abbiamo naturalmente, la dimentichiamo.

Purtroppo questa parte del Paese ha perso anche la capacità e la dignità di affermare quel dettato costituzionale che dà pari doveri e diritti ai cittadini italiani, per cui, scoperto e ufficialmente da fonti ufficiali statuito, che vi è uno scippo da due lustri fino ad oggi di oltre 60 miliardi annui, non solo non pretende che si restituisca il malloppo sottratto, anche distribuito negli anni visto che 600 miliardi il Paese non avrebbe dove prenderli, ma neanche si pensa di perequare la situazione per gli anni a venire, anzi si tollera che peggiori ulteriormente. In mancanza di infrastrutture di trasporto, di asili nido, di sanità efficiente, di scuole ed università adeguate ci si aspetterebbe il movimento non delle sardine ma degli squali, pronti a sbranare chiunque si contrapponesse sulla strada.

Ed invece non succede nulla, confermando la storia della rana bollita lentamente e che non è più capace si salvarsi saltando dall’acqua calda alla quale ormai si è abituata e che la bollirà facendola morire. Quindi poco o nulla ci si potrà aspettare dai disillusi rassegnati meridionali, che di volta in volta potranno votare anche per il Masaniello di turno, tranne a rendersi conto dopo qualche mese che hanno affidato il loro destino a chi non aveva nessuna capacità di gestirlo. Ma il tema vero è che questo Paese non si salva senza mettere a regime questa parte del Paese, senza utilizzare la posizione strategica, i drivers come li chiama Svimez , che se non valorizzati faranno precipitare il Paese dai primi posti in Europa alla coda, come le previsioni di crescita del 2020 e la retrocessione di regioni come Umbria e Marche nella fase di transizione che vuol dire allontanamento dalle regioni più ricche d’Europa confermano.

Adesso che ci sveglieremo dal lungo sonno delle elezioni “epocali”, sull’altare delle quali il ministro Boccia voleva sacrificare anche la concessione delle autonomie differenziate, che avrebbero reso legittima la differente distribuzione delle risorse sulla base della Spesa Storica, si spera che finalmente si affronti il vero problema di questo Paese che è lo sviluppo, la ripartenza dei cantieri, l’occupazione, l’emigrazione, la semplificazione amministrativa, il decollo delle Zes, l’attrazione di investimenti dall’esterno dell’area, un maggiore centralismo di sostituzione laddove si manifestino carenze, un controllo delle fasi di spesa delle regioni. Perché o ci si salva tutti insieme, o tutti insieme si affonda.


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