Il Palazzo della Farnesina sede del ministero degli esteri
6 minuti per la letturaUna volta si correva a leggere un panciuto libricino di Laterza sulla storia della politica estera italiana di Federico Chabod. Oggi vale quanto una reliquia. C’era una volta, la politica estera. Ne abbiamo ancora una o no? La più antica formula e la più sbrigativa è quella della canzonaccia popolare: “O Franza O Spagna, purché se magna”. Ci furono tempi in cui i re facevano la loro politica estera e le loro guerre, i giovani venivano coscritti a forza e mandati a fare terra per ceci, magari in colonia.
Mussolini pensava di aver fatto un colpo grossissimo attaccando il suo skybord dietro i panzer di Hitler, contando di “gettare sul tavolo delle trattative qualche migliaio di morti”. Così, come quaglie o conigli. Ma quando gli americani bombardarono Roma il 19 luglio del 1943, cosa che determinò il colpetto di Stato del re contro Mussolini, fu evidente che il nostro Paese non aveva una contraerea che raggiungesse le fortezze volanti. E quando il duce chiese a Hitler se per favore gli poteva prestare la FALK, la micidiale contraerea tedesca e quello disse di no, capì che era finita.
Morale: la politica estera se la può permettere chi può schierare una forza militare adeguata. La piccola nuova Italia uscita dal Risorgimento era affamata di Colonie e infatti se ne procurò, ormai fuori tempo massimo, ma anche il poeta socialista Giovanni Pascoli quando si trattò di prendere la Libia alla Turchia (la stessa Turchia che in queste ore sta tornando in Libia) scrisse il celebre verso “La grande proletaria si è svegliata”. La grande proletaria era l’Italia contadina, rurale, analfabeta che cercava soltanto nuove terre da arare, bonificare come fecero i veneti chiamati nelle paludi pontine bonificate. E il deserto effettivamente fu trasformato in giardino e grano, come accadde anche alle pietraie della Galilea e della Samaria, beffardamente chiamate Palestina dagli imperatori romani, dove oltre un secolo fa ebrei socialisti tedeschi comperarono sassaie e sterpaglie (vedi i resoconti indipendenti di Mark Twain e di Edmondo De Amici che neanche si conoscevano e che scrissero come trovarono la “Terra Santa”)) e su quei campi e verdure si formarono nuove popolazioni.
Così accadde anche in Libia, ma l’Italia era affamatissima di conquiste e di prestigio: il piccolo regno voleva stare alla pari con le grandi potenze in qualche modo ci stava ma, per dirla col cancelliere tedesco Otto von Bismarck, “l’Italia ha un grande stomaco, ma pochi denti”. L’Italia perse tutti i suoi scarsissimi e cariati denti militari con la disfatta della Seconda guerra mondiale, con un re in fuga, il duce giustiziato e impiccato per i piedi, l’esercito abbandonato e tornato a casa o in montagna. Poi l’Italia venne, con la pace, riabilitata perché era di cerniera con l’Est comunista ed ebbe un ruolo di prestigio. Entrata nella Nato, nell’alleanza atlantica, fu rimessa in fila tra le potenze occidentali e cominciò anche a produrre un’industria bellica importante con la Fiat e la Finmeccanica, l’Agusta e altro ancora, sempre secondo il principio per cui non puoi avere una politica estera se non hai anche una spada da mostrare nel fodero. A meno che non usi come politica estera un’altra cosa che è il potere di scambio. L’arma più amata dagli italiani: il nostro Paese, come il Giappone, non ha materie prime, è un paese che deve trasformare (salvo che con le modernissime tecnologie che non hanno bisogno di petrolio e acciaio) e ha creato l’Eni.
Fu un colpo di genio di un partigiano cattolico, Enrico Mattei che poi fu ucciso in un incidente areo truccato, probabilmente dai francesi per questioni di concorrenza petrolifera., La vera politica estera italiana l’ha fatta sempre l’Eni alla perenne ricerca di fonti energetiche, petrolio e gas, da comprare e convogliare verso i porti e i tubi di casa. La politica estera italiana non ha fatto uso di soldati, come il Regno Unito, la Francia e anche il Belgio, non ha dovuto affrontare le guerre coloniali di tutti i paesi che ne avevano visto che le avevano già perse, ma poté ristabilire rapporti molto speciali con alcune sue vecchie colonie e in cui ancora si parlava l’italiano – è il caso della Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia fino agli anni Settanta, ma anche delle isole greche del Dodecanneso strappate alla Turchia con la guerra del 1912 – mantenendole nella nostra sfera di influenza.
Un maestro in questo campo fu il socialista Bettino Craxi di cui si celebra il ventesimo dalla morte in Tunisia dove è sepolto, che aveva rapporti strettissimi con il dittatore somalo Siad Barre oltre che con tutto il Maghreb e in particolare la Tunisia. Il Partito comunista, finché fu un ossequiente esecutore della politica estera di Mosca era schierato con ogni Paese del Terzo Mondo (terzo perché non apparteneva agli schieramenti americano e russo) ma dava il suo aiuto all’Eni per i rapporti con i Paesi ex coloniali e inoltre gestiva direttamente il settore commerciale dei rapporti energetici fra Italia e Urss, per conto dell’Eni. Tutto ciò significava per l’Italia la necessità di avere un atteggiamento sempre benevolo verso Paesi e popoli del Vicino Oriente e in particolare nei confronti dell’Olp palestinese di Yasser Arafat che usò negli anni Settanta il territorio italiano come un suo far west su cui poter regolare conti, compiere attentati e farla franca.
L’Italia non subì molti attentati, ma la tragedia di Ustica, finita con una sentenza molto discutibile è secondo molti studiosi fra i quali mi metto anch’io (vedi il mio vecchio: “Ustica verità svelata”) un’azione di rappresaglia seguita dalla strage di Bologna causata – ormai lo sappiamo – da un errore tecnico dei trasportatori palestinesi. Ci fu poi un tremendo attacco contro i romani ebrei alla Sinagoga e un attentato a Fiumicino nel 1986 con molti morti e feriti. Ma l’Italia non ha sofferto tuttavia e specie negli ultimi vent’anni le devastazioni terroristiche che hanno colpito la Francia, la Germania, l’Inghilterra, la Spagna, l’Olanda, il Belgio. Molti agenti di intelligence e fonti estere affermano che la politica estera italiana è sempre consistita nel pagare polizze assicurative efficienti e laute.
Ma una vera politica estera diversa da quella ufficiale dei Paesi della Nato sotto guida americana fu realmente attivata da una parte considerevole della sinistra delle Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani, mentre Giulio Andreotti aveva una sua rete sviluppatissima in Africa e in Unione Sovietica di cui era con discrezione un gran difensore.
Con Berlusconi l’Italia conobbe un momento di grande alleanza con Usa e Uk, ma a quel tempo la Federazione russa era in una fase di turbolento riassestamento. Oggi la Russia di Putin è la più grande potenza energetica fornitrice dell’Europa e c’è che preferirebbe servirsi di altri per non mettere tutti i nostri rubinetti del gas nelle mani di Gazprom, la azienda di stato russa che lavora come l’Eni, ma con possibilità economiche cento volte superiori. Oggi, mentre scriviamo, non possiamo dire che esista un vero ministero degli Esteri, benché non manchi l’eccellenza umana e che questo governo abbia particolari indicazioni da dare alla propria diplomazia. Ma non ha neanche più, almeno dai tempi di Frattini, una qualche filosofia della politica estera che oggi procede alla cieca, blaterando frasi banali di invito alla pacificazione e alla calma, tutte chiacchiere inutili perché come diceva il presidente americano Theodore Roosevelt (quello della guerra contro la Spagna) “Se vuoi essere rispettato, impugna un nodoso bastone e parla a voce bassa”.
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