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Rinviare. Sembra questa l’ultima tattica del governo giallorosso. Tanto poi qualcosa di nuovo arriva, basta avere pazienza. Vedi la vicenda dell’ex Ilva: dei giudici si intestardiscono a far spegnere l’altoforno 2, degli altri giudici, con un congruo lasso di tempo accolgono il ricorso e non lo fanno spegnere, così 3.500 operai non verranno messi in cassa integrazione.

La domanda sul «ma si può andare avanti così?» è sempre lì, ma la risposta continua a essere la stessa: perché no, in fondo stiamo pur andando avanti. Ovviamente la questione è quali siano i costi che si pagano per questa stramba danza politica, ma siccome non è facile tirarli in quattro e quattr’otto per intanto va bene così.

GLI SCOSSONI

A stare a quasi tutte le analisi che circolano non si muoverà granché fino a dopo che si sapranno i risultati delle elezioni del 26 gennaio in Emilia e Calabria, a dispetto dei proclami che si ripetono dagli ambienti della maggioranza, dove si continua a sostenere che sono prove che non coinvolgono il governo.

Naturalmente non è così semplice. Intanto ci sono da superare gli impatti che verranno da due scadenze ravvicinate: il 12 gennaio è il termine per depositare le 64 firme di senatori che possono far scattare il referendum confermativo sul cosiddetto “taglia-poltrone”; il 15 gennaio è la data della riunione della Consulta per pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum Calderoli per trasformare l’attuale legge elettorale in un sistema a impianto esclusivamente maggioritario. Difficile immaginare che i due eventi, quale che sia l’esito della pronuncia della Corte, possano scivolar via senza trasmettere qualche scossone.

Meno impattante dovrebbe essere la pronuncia della Giunta per l’autorizzazione sulla vicenda Salvini-Gregoretti prevista per il 20 gennaio (ammesso che anche questa non subisca rinvii). Per quel che si capisce è ormai uno scontro deciso fra centrodestra e attuale maggioranza di governo, per cui l’esito è dato per scontato, e al massimo ci saranno un po’ di sceneggiate da parte del leader della Lega che si illude di poter portare in tribunale con lui “il popolo italiano”.

Quel che si consumerà in questo mese di galleggiamenti tattici è la posizione del premier Conte. La sua ambizione di essere il punto di equilibrio della coalizione e l’uomo che fa sintesi sarà sempre più bruciata dall’arroccarsi dei partiti sulle proprie posizioni in attesa dei risultati delle urne del 26 gennaio. Il fatto è che ci vorrebbe un miracolo perché quel risultato lasciasse Conte saldo nel ruolo di arbitro, perché quello suppone forze che vogliono giocare nello stesso campionato, più o meno con le stesse regole, non forze che non sanno più a che gioco stanno giocando.

IL COLLANTE

I cinici avvertono che a tenere tutto insieme ci penseranno le scadenze di febbraio che mettono sul piatto del governo centinaia di posizioni apicali in quello che un tempo si chiamava il para-stato: uno spoil system troppo ghiotto per metterlo in forse con una crisi di governo. Vale però anche il ragionamento contrario: per spartirsi risorse bisogna che ci sia un minimo di base comune su cui convergere, altrimenti non si sa dove trovare il compromesso.

Tanto per dire una banalità: come sarà possibile trovare la quadra fra l’appetito di un M5S che pretende sempre di essere il partito più forte della coalizione e la realtà di un movimento che si sta sfasciando, situazione che potrebbe anche peggiorare alla luce dei prossimi risultati elettorali? E questo senza insistere sul fatto che i Cinque Stelle non sono messi molto bene come presenze di quadri all’altezza dei posti in palio. Si potrebbe dire che per essere nominate si troveranno facilmente figure disposte a indossare la maglietta pentastellata, ma come potranno Di Maio e soci fidarsi di adesioni strumentali quando sono in crisi sulla tenuta dei loro gruppi (che certo non ingoierebbero tranquillamente scelte di quel tipo)?
Qualcosa di simile vale anche per LeU e per Italia Viva, che hanno bisogno di occupare posizioni. Non si troverebbe meglio il Pd, che avrà anche lui da fare i conti con i risultati di Emilia e Calabria, vuoi per consolidare la scelta del “campo largo”, vuoi per non tradire il non piccolo esercito di complemento che ha raccolto nei gangli del parastato lungo anni di potere.
Stiamo naturalmente ragionando senza pensare che la crisi internazionale possa raggiungere picchi drammatici, perché ciò cambierebbe ulteriormente il quadro di rifermento. Da questo punto di vista sarà già più che abbastanza la tensione economica che sta montando e che da sola richiederebbe un governo compatto e con una forte direzione.

PREMIER AL BIVIO

Conte insomma dovrebbe uscire dal mito di poter essere il punto di equilibrio di una situazione in rissa perenne, perché quando le cose si mettono in quel modo l’equilibrio è irraggiungibile. Se davvero il premier vuole continuare a fare politica così come ha annunciato, deve cominciare a farla, sapendo che ciò non vuol dire trovare mediazioni a tutti i costi, ma decidere che fare e ottenere che lo si faccia.

Certo questo lo costringe a imporre disciplina alle forze che lo sostengono e quindi a smarcarsi da quelle che non vogliono piegarsi a ragionare nell’ottica di solidarietà governativa. Può riuscirci solo se mette sul tavolo non astratte mediazioni, ma soluzioni su cui può pretendere che i partiti decidano. Deve farlo prima che il combinarsi delle ricadute che verranno a seguito delle vicende dei due referendum elettorali proposti con la lettura degli esiti delle urne del 26 gennaio metta tutti i partiti nelle condizioni psicologiche di chi che si prepara alla fine della legislatura e che si muovono solo con l’occhio alle urne in arrivo.


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