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È VERO che le statistiche tendono a semplificare la realtà come nella poesia di Trilussa. Ma sono sempre più affidabili di quella che è assurta a nuova bussola dell’opinione pubblica: la percezione. Se ben usate le statistiche servono a smontare dei luoghi comuni, degli idola fori che finiscono per rappresentare una realtà che non esiste. Nei giorni scorsi, l’Istat ha fornito i dati degli italiani che hanno scelto di risiedere e lavorare all’estero (come è diritto dei cittadini dell’Unione). Quando si evoca l’emigrazione si pensa subito al ‘’meridionale’’ che si reca da Trevico a Torino con una valigia di cartone legata con lo spago.
EMIGRATI DEL NORD
Ma la realtà è cambiata. La carta d’identità degli italiani che se ne vanno – senza doversi imbarcare sui bastimenti in terza classe – è rilasciata dagli uffici comunali situati, in prevalenza, al di sopra del Garigliano. Nel decennio 1999-2008, ha reso noto l’Istat, gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati complessivamente 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri, con un saldo negativo di 48 mila unità. Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri): di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno.
Significativi anche i dati sui laureati che lasciano il nostro Paese: in dieci anni sono stati 182 mila. Solo nell’ultimo anno sono emigrati 29 mila persone con un aumento del 6% che sale addirittura al 45% se si considerano gli ultimi 5 anni. Non c’è dubbio: si tratta di un capitale sociale che può essere perduto, ma che potrebbe rientrare arricchito di esperienze compiute in altri Paesi. Soprattutto quando i giovani laureati si recano in altri Paesi dell’Unione.
Peraltro – la circostanza è singolare se la confrontiamo con ciò che viene ‘’percepito’’ – secondo i dati Istat riguardanti il rapporto tra iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente nel 2018, risulta che, mentre aumentano gli italiani che scelgono di risiedere all’estero, per la prima volta in 5 anni, diminuiscono le immigrazioni nel nostro Paese, con un netto calo soprattutto degli arrivi dall’Africa.
I VERI NUMERI
La regione da cui se ne vanno più concittadini, in valore assoluto, è la Lombardia con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 22 mila (di cui 6,5mila a Milano), seguono Veneto e Sicilia (entrambe oltre 11 mila), Lazio (10 mila, di cui 8mila a Roma) e Piemonte (9 mila, di cui 4mila a Torino). In termini relativi, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di “emigratorietà’’ più elevato si ha in Friuli-Venezia Giulia (4 italiani su 1.000 residenti), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta (3 italiani su 1.000). Tassi più contenuti si rilevano nelle Marche (2,5 per 1.000), in Veneto, Sicilia, Abruzzo e Molise (2,4 per 1.000). Le regioni con il tasso di “emigratorietà’’ con l’estero più basso sono Basilicata, Campania (Napoli 3,5mila) e Puglia, con valori pari a circa 1,3 per 1.000.
In sostanza, diversamente da quanto si crede (e a parte il caso della Sicilia), gli italiani che vanno a risiedere all’estero (quasi sempre per lavorare) provengono dalle regioni più ricche del Paese e dove è minore la disoccupazione. Ma la “madre’’ di tutte le smentite è arrivata sugli scudi del Censimento sulle istituzioni pubbliche (2017) dell’Istat. La maggiore concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione si registra, non nel Sud ‘’assistito e clientelare’’, ma nei territori del Nord a Statuto speciale: regione Valle d’Aosta e Province autonome di Trento e Bolzano/Bozen (le uniche con più 7 dipendenti pubblici ogni 100 abitanti). La quota più bassa di dipendenti pubblici sulla popolazione residente si registra in Lombardia (3,8), Campania e Puglia (4,2), Veneto (4,3).
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