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Alla voce “Tutela della salute”, nel suo bilancio la Puglia (4,1 milioni di residenti) nel 2019 iscrive la cifra di 7,7 miliardi. L’Emilia Romagna (popolazione 4,4 milioni), invece, quasi 10,2 miliardi, 2,5 in più nonostante uno scarto residuale di abitanti; il Veneto (4,9 milioni) spende 10,1 miliardi; la Lombardia che ha poco più del doppio della popolazione della Puglia (10 milioni di residenti) spende quasi il triplo, 19,3 miliardi.

LA DÉBÂCLE IN CIFRE

I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle varie Regioni e, come sempre, i numeri non mentono: la disparità di trattamento tra Nord e Sud è raccontata fedelmente da queste cifre. Insomma, una “tutela della salute” a macchia di leopardo: in alcune zone è più garantita, in altre meno. D’altronde, la Corte dei conti ha accertato che, dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno aumentato la loro quota, mediamente, del 2,36%; altrettante regioni del Sud, invece, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi, hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Tradotto in euro, significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato quasi un miliardo in più (944 milioni) rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

Così è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati solo 685 milioni in più. Nel 2017 il 42% delle risorse finanziarie per la sanità è stato assorbito dalle Regioni del Nord, il 20% dalle Regioni del Centro, il 23% da quelle del Sud, il 15% dalle Autonomie speciali.

Le disuguaglianze sono ancora più palesi se si analizza la spesa pro-capite: nel 2017, lo Stato ha investito in media 1.888 euro per ogni cittadino, tutte le Regioni meridionali, tranne il Molise (2.101 euro pro capite), spendono meno della media nazionale. In particolare la Campania (1.729 euro), la Calabria (1.743), la Sicilia (1.784) e la Puglia (1.798); mentre la spesa pro capite più alta si ha nelle Province autonome di Bolzano (2.363 euro) e Trento (2.206), in Liguria (2.062), Valle d’Aosta (2.028), Emilia-Romagna (2.024), Lombardia (1.935), Veneto (1.896).

ISTRUZIONE

Dalla sanità al diritto allo studio la situazione non cambia: se la Regione Lombardia può permettersi di impegnare, solo nel 2019, 420 milioni per garantire il diritto allo studio dei giovani, la Puglia – sfavorita da minori trasferimenti statali e dall’iniqua ripartizione del fondo nazionale, basato ancora sulla spesa storica – per le scuole e le Università non può andare oltre 32 milioni.

Istruzione, politiche per i giovani e trasporti non sono la “magna pars” dei bilanci regionali (la sanità la fa sempre da padrone), ma sono comunque servizi essenziali e segnalano, ancora una volta, il grande gap tra Nord e Sud. Se la quota pugliese per l’istruzione è di 32 milioni, quella dell’Emilia Romagna è quasi il doppio: 60 milioni. Risultato? Al Sud si possono finanziare meno borse di studio e ci si deve arrangiare con un personale numericamente inadeguato.

Basti pensare che nelle scuole del Nord ogni professore, mediamente, insegna a 10 studenti; al Sud, invece, per ogni docente ci sono 13,5 alunni. Nel Mezzogiorno le scuole pubbliche – di ogni grado e livello – sono 2.528, i docenti sono 231.051: in sostanza, in ogni scuola, mediamente, sono impiegati 91 insegnanti. Al Nord, invece, le scuole sono 3.266 e i professori 356.100: risultato, in ogni istituto lavorano circa 109 docenti.

TRASPORTI

Il gap tra Nord e Sud è evidente nel settore trasporti e infrastrutture. Se da Firenze in su non mancano treni ad alta velocità, autostrade che intersecano e collegamenti diretti con le grandi capitali europee, da Roma in giù si procede lentamente. Si parla da anni di Tav in Piemonte, ma quello che c’è al Sud arriva solo fino a Salerno. Da decenni si attende la velocizzazione della tratta Napoli-Bari, a cui gli utenti preferiscono i bus privati, più comodo e veloci. La linea ferroviaria jonica presenta invece un solo binario, mentre la Reggio Calabria-Taranto è una trappola per gli automobilisti.

Insomma, c’è tanto da fare per accorciare le distanze e rendere meno diseguali la rete infrastrutturale del Settentrione – soprattutto in Lombardia e Piemonte – e quella del Meridione, scarsa e inefficiente. In Campania i collegamenti via ferro con Avellino e Benevento, per esempio, sono complicatissimi. Ferrovie dello Stato ha provato a dimostrare che la rotta è cambiata. In Puglia, si sta ancora peggio: tra Bari e Lecce, ad esempio, manca il tratto autostradale e si devono percorrere 180 km su un’arteria desolata; da Foggia a Lecce il viaggio in treno dura addirittura 6 ore, un’odissea. Passando alla Basilicata la Basentana è un’incompiuta ormai storica, mentre i lavori dalla Bradanica che collega Matera (capitale europea della Cultura) e la dorsale adriatica non saranno ultimati prima della fine 2020.

CULTURA

Il gap riguarda anche l’infrastruttura immateriale che risponde al nome di cultura. Secondo gli ultimi dati Istat, coloro che non hanno mai svolto alcuna attività culturale e ricreativa sono molti di più al Sud (oltre il 30% in tutte le regioni) che al Nord, dove sono solo il 7,8% in Trentino, il 10,8% in Friuli, il 13% in Emilia Romagna.

In particolare i divari maggiori sono nelle percentuali di lettori di libri e spettatori di teatro. Più del 45% dei residenti dalla Toscana in su ha letto almeno un libro in un anno, con punte del 53,1% in Trentino e del 50,6% in Friuli, mentre quasi tutto il Sud è sotto il 30%, fino a un misero 25,8% siciliano.

Nel caso del teatro, nelle regioni con meno spettatori, Molise e Calabria, la percentuale di chi ha visto almeno uno spettacolo in un anno è la metà rispetto al Lazio e al solito Trentino. Il motivo? Meno imprese culturali, meno possibilità di accedere a forme di intrattenimento o svago, ma soprattutto meno reddito da spendere.

OPERE PUBBLICHE

Cresce il divario tra il Mezzogiorno e le regioni del Centro-Nord d’Italia anche sul fronte delle costruzioni e, quindi, delle opere pubbliche. A rivelarlo è l’esito della “Indagine sulle costruzioni e le opere pubbliche nel 2018” realizzata e pubblicata dalla Banca d’Italia.

Una ricerca a cui ha preso parte un campione di 564 imprese suddivise in due classi dimensionali: da 10 a 49 addetti e con 50 addetti e oltre.
Quattro, invece, le macroaree in cui è stato suddiviso il territorio della Penisola: Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole.

Dall’approfondimento emerge un crescente gap tra il Sud e le regioni del Centro e del Nord. Lo studio ha preso a base di calcolo l’anno 2005, i cui dati sono stati presi a riferimento come valore-base 100. Il valore della produzione nel settore delle costruzioni è passato, dal 2005 al 2018, a 63, registrando quindi una flessione di 37 punti.

IL CROLLO

Un dato grave, che al Sud assume proporzioni allarmanti. Solo lo scorso anno il valore della produzione si è assestato a circa 55, che in ogni caso sono 45 punti in meno rispetto al 2005, e 8 al di sotto del dato settoriale nazionale. La flessione, nel settore in generale, e specificamente al Sud, è stata pressoché costante dal 2005 a oggi: lievissimi incrementi fino al 2007, praticamente irrilevanti nel Sud; crollo inarrestabile fino al 2013; dato nuovamente negativo, ma flessione più contenuta, fino al 2015, con il Sud in controtendenza, in leggerissima crescita tra il 2014 e il 2015; nuovamente in flessione dal 2015 al 2018.


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