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Le diseguaglianze non sono tutte uguali. Soprattutto, non sono indipendenti l’una dall’altra. Il dato sanitario, per esempio, è tra quelli che più strettamente risultano legati ai fattori economici e sociali e che maggiormente dipendono dalla deprivazione educativa e culturale. Il Rapporto Istat del 2018 è molto chiaro in proposito, affermando che «le determinanti capaci di incidere sulla salute sono numerose: si tratta di caratteristiche biologiche, socioeconomiche, demografiche e territoriali. Ognuno di questi fattori agisce sia singolarmente sia interagendo con gli altri, contribuendo a definire lo stato di salute dell’individuo».
GLI INDICI NEGATIVI
Non a caso, uno dei principali obiettivi della sanità pubblica, e non solo a livello nazionale, è quello di superare le diseguaglianze nella salute. Obiettivo su cui però più volte negli ultimi vent’anni l’Organizzazione mondiale della sanità è dovuta tornare, rivolgendo specifiche Raccomandazioni ai governi proprio sull’equità da garantire nella prevenzione e promozione della salute. Un esempio per tutti, l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, sottoscritta nel 2015 dai 193 Paesi membri dell’Onu, che fa riferimento proprio alle diseguaglianze e al loro superamento.
Ebbene, le Regioni italiane, e in generale le parti di territorio, dove il rischio di povertà ed emarginazione economica e sociale aumenta sin dalla primissima età sono, secondo l’Onu, quelle del Sud Italia. Le stesse, secondo i dati dei vari organismi nazionali e internazionali raccolti nel Rapporto di Cittadinanzattiva 2018 sul federalismo in sanità, che ricorrono in misura minore alla prevenzione e che registrano, ad esempio, un maggior tasso di sovrappeso e obesità infantile, quindi di malattie croniche come il diabete in età adulta.
Le stesse Regioni del Sud, non a caso, che non dispongono di mense adeguate nelle scuole pubbliche della prima infanzia analizzate a campione: se l’83% degli asili italiani dispone di una mensa interna, in Campania siamo solo al 25% e in Basilicata al 40%. E se il 90% di quelle strutture assicura diete speciali, ciò avviene soprattutto nelle Regioni del Centro Nord, mentre in Calabria la percentuale scende al 25%.
Secondo l’Istituto superiore di sanità, se in Italia 3 bambini su 10 hanno problemi di sovrappeso o obesità, al Sud è in sovrappeso un bambino su tre. E per quanto riguarda il diabete, il Mezzogiorno risulta essere maggiormente colpito sia per l’incidenza della malattia – i valori più alti si registrano in Calabria, Basilicata, Sicilia, Campania, Puglia – sia per mortalità, dove ai primi posti troviamo Campania, Calabria e Sicilia.
Un costo umano ed economico altissimo, se si pensa al dato presente nel “Primo Rapporto civico sul Piano Nazionale Diabete” di Cittadinanzattiva: «In media ogni malato spende 2.600 euro l’anno per la sua salute, più del doppio rispetto ai concittadini senza diabete, incidendo per il 5,61% sulla spesa sanitaria e per lo 0,29% sul Pil».
DISCRIMINAZIONE GLOBALE
Insomma, una discriminazione complessiva che investe non solo l’intera vita di una persona, ma quella di tutta la collettività, alimentando sprechi di risorse e impedendo uno sviluppo sostenibile, inclusivo e sufficientemente diffuso in tutto il Paese.
Guardiamo più da vicino alla prevenzione, capitolo cruciale rispetto al benessere dell’individuo e alla possibilità di risparmio (e investimenti) della spesa pubblica: da un lato è l’intervento maggiormente in grado di ridurre le diseguaglianze; dall’altro, è anche quello che più risente dei fattori economici, sociali e culturali che influenzano l’accesso alle cure e che colpiscono le Regioni del meridione, a maggior rischio di esclusione.
Se il nostro Ssn destina alla prevenzione, almeno formalmente, il 5% del proprio Fondo, le cose nella pratica stanno diversamente: considerato che dal 2008 al 2015, secondo l’Andamento della spesa sanitaria nelle Regioni registrato dall’Agenas, questa percentuale non è stata mai raggiunta completamente, è al Sud che il dato si fa allarmante.
E a confermarcelo, ancora una volta, è la Corte dei conti nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2018.
LA CORTE DEI CONTI
«Per quanto riguarda la qualità delle prestazioni fornite dai Ssr – scrive la Corte – e in particolare di quelle rientranti nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), si rilevano in numerose Regioni elementi di criticità legati a livelli di prevenzione, quali misurati dalla popolazione sottoposta a screening oncologici, al di sotto della soglia critica».
Nello specifico, se il valore considerato normale, quello di una Regione adempiente rispetto ai Lea, è 9, delle sei regioni che non raggiungono il punteggio accettabile, quattro sono al Sud: Calabria e Puglia (2), Campania e Sicilia (3). Ben oltre il valore normale Regioni come Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna (15), o come il Piemonte che sale da 7 a 11.
LO SCREENING
Molto preoccupante anche il dato regionale riguardante la prevenzione dello screening mammografico. Se nel 2016, l’80% delle donne tra i 50 e i 69 anni ha ricevuto l’invito a eseguire l’esame mammografico (oltre 3.141.894 inviti), ancora una volta risalta l’enorme differenza territoriale: l’invito ha raggiunto più di 97 donne su 100 al Nord, poco meno di 93 su 100 al Centro e quasi 51 su 100 al Sud.
Secondo l’Osservatorio nazionale dello screening, inoltre, la media in Italia delle donne tra 50 e 69 anni che ha svolto l’esame nel periodo tra il 2014 e il 2016 è del 73%, di cui il 14% al di fuori dei programmi di screening. Ma la copertura più alta è di nuovo al Nord (83%, con il 14% fuori programmi di screening), diminuisce al centro (78%, con 21% fuori programmi screening) e raggiunge valori molto bassi al sud e isole (58%, con 22% fuori programmi screening). E non è tutto. Tra le Regioni nelle quali complessivamente, tra mammografie eseguite dentro e fuori dai programmi di screening, si è al di sotto della media italiana, ben quattro sono al Sud: Puglia (65%, solo 32% nei programmi), Sicilia (58%, di cui 45% nei programmi), Calabria (41%, di cui 33% nei programmi), Campania (49%, di cui solo 22% nei programmi).
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