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Stiamo per entrare nella settimana in cui si voterà la riforma che riduce il numero dei parlamentari. I Cinque Stelle grideranno che si è fatta finalmente la svolta abolendo uno spreco, ma sarà un grido a vuoto come quelle ormai famoso sull’abolizione della povertà.

Perbacco, lo stato, che ha per questo risorse sue che si evita di chiedersi da dove arrivino.

Non stiamo facendo del facile sarcasmo, ma semplicemente cercando di rendere esplicito perché in Italia l’evasione fiscale non è considerata un peccato sociale, ma una specie di legittima difesa da parte di chi è in condizione di esercitarla. Purtroppo tutti i governi sorvolano su questo problema che è di natura culturale e che dunque potrebbe essere affrontato solo partendo da lì. Il fatto è che per farlo sarebbe necessario partire da una premessa che nessun governo ha in definitiva il coraggio di porre: il prelievo fiscale non è il bancomat a cui lo stato ricorre per trovare denaro quando ne ha bisogno per qualsiasi cosa passi per la testa dei governanti pro tempore (non solo quelli nazionali). Altrettanto la leva fiscale non dovrebbe essere il meccanismo con cui favorire la spesa in settori economici che paiono in sofferenza, perché questa è la ragione per cui si consentono detrazioni per incentivare consumi nell’edilizia, nell’arredamento, nelle automobili, nel riscaldamento e via elencando.
In questa autentica giungla che si popola sempre di più di vegetazione, il cittadino si perde e difficilmente svilupperà una coscienza civile circa il suo dovere di sostenere pro quota i costi dei servizi che la collettività mette a sua disposizione. Lo stato a sua volta sarà sempre più spinto ad applicare la logica del “passator cortese” (il mitico bandito ricordato dal Pascoli): appostarsi all’angolo delle vie obbligate e prelevare i soldi da chi è costretto a passarvi (si chiama pudicamente ritenuta alla fonte coi sostituti d’imposta). Chi può evitare quelle strade, riuscirà ad evitare, parzialmente o totalmente, il rischio.

Sembra impossibile ricondurre il sistema fiscale alla razionalità. Prendiamo la tematica che agita il ministro Speranza, far pagare l’integrazione alle spese per prestazioni sanitarie con tariffe progressive in base al reddito. Superficialmente sembra una cosa logica: chi ha maggiori possibilità deve contribuire perché chi ne ha meno possa avere le stesse prestazioni senza esborsi. In realtà la faccenda è più complicata. Il primo dato è che la tassazione generale sui redditi è già progressiva e anche in maniera accentuata. Già con questo chi ha di più giustamente ha dato di più per la copertura dei servizi che lo stato si impegna ad assicurare a tutti. Adesso però gli si chiede di aggiungere un altro obolo, cioè in pratica di pagare due volte per un servizio che dovrebbe essere coperto dalla tassazione generale. Si capisce perché con questo modo di pensare si finisce per portare acqua al mulino di quelli che tifano per la flat tax: paghiamo tutti poco di base, tanto poi i servizi li metteranno comunque a nostro carico.

Ma c’è di peggio. Con un sistema fiscale scassato come è quello italiano ogni intervento del tipo di quelli che ha in mente il ministro Speranza è in realtà distorsivo, perché carica di oneri chi le tasse le paga fino all’ultimo centesimo e fa un ulteriore favore a chi le tasse le paga parzialmente o peggio non le paga per nulla, che si vedrà anche esentato dal pagamento delle integrazioni. Una banalità che però l’opinione pubblica coglie subito e che dunque porta vantaggio a tutti coloro che speculano demagogicamente sul tema delle tasse.

Dire che quello è il terreno privilegiato di tutti i populismi è una banalità. In momenti di crisi economica e di malfunzionamento degli apparati amministrativi diventa esplosivo. Da dentro il governo come dall’opposizione si alzano continuamente voci che proclamano di essere i difensori del popolo contro l’aumento delle tasse: viene considerata la via più facile per ottenere visibilità e consenso a buon mercato. Naturalmente pochissimi si preoccupano di spiegare come si possa giungere ad una revisione equilibrata del nostro sistema fiscale, perché basta ripetere qualche formula magica e tutto si aggiusta: pagare tutti per pagare meno; taglio della spesa pubblica così allo stato servono meno soldi; fare lotta dura contro l’evasione fiscale; e via dicendo.

Di revisione seria dei nostri sistemi di prelievo fiscale, parla solo qualche specialista. E teniamo conto che ci sarebbe anche da rivedere il ricorso alla tassazione indiretta, quella sui prodotti, introdotta in genere con prelievi per scopi determinati, ma che poi rimane per sempre accumulandosi con quelli per nuovi scopi. Si veda la composizione del prezzo dei carburanti e si avrà una interessante fotografia di come le cosiddette “tasse di scopo” siano tra le misure meno credibili.

Per un intervento razionalizzatore sul sistema fiscale occorrerebbe un grande consenso sia fra le forze politiche che fra le varie componenti della società civile, ma la voglia di trarre profitto immediato dalla popolarità di ogni veto alle tasse impedisce qualsiasi intesa. In fondo introdurre un po’ più di giustizia in questo campo interessa relativamente: meglio sparare nel mucchio e lasciare che tutto proceda col solito andazzo. Tanto alla fine a quello la gente è rassegnata e non ne chiede veramente conto a nessuno.


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