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Solamente Lombardia ed Emilia Romagna, insieme, attraggono un terzo degli ammalati di altre regioni. Un ulteriore 29,2% viene totalizzato da Veneto (8,6%), Lazio (7,8%), Toscana (7,5%) e Piemonte (5,2%). Il rimanente 32,7% della mobilità attiva è suddivisa in ben 15 regioni, tutte o quasi del Sud.
Basterebbero questi numeri per raccontare una Italia che, a livello sanitario, è spaccata, come se esistessero due Paesi diversi.
FAI IL CONFRONTO CON I DATI 2017
Il Nord, come evidenzia il rapporto 2019 realizzato dall’Osservatorio Gimbe, continua a fare cassa curando i pazienti provenienti dal Mezzogiorno. Nel 2017, infatti, rispetto all’anno precedente il saldo tra mobilità attiva e quella passiva peggiora per le Regioni del Sud: la Puglia nel 2017 dovrà versare 206 milioni, nel 2016 il “passivo” fu di 181 milioni; la Campania passa da -302 a -323 milioni, la Sicilia da -236 a -239 milioni, la Basilicata da -38 a -55 milioni. L’unica a migliorare la propria situazione è la Calabria, che passa da un saldo negativo di 319 milioni ad uno sempre in rosso ma di 278 milioni.
CHI CI GUADAGNA
A guadagnare, invece, sono sempre la Lombardia (+804 milioni), l’Emilia Romagna (+302 milioni), seguono Veneto (+ 138 milioni), Toscana (+139 milioni) e Friuli Venezia Giulia (+6 milioni). Le regioni con maggiore indice di fuga sono Lazio (13,2%) e Campania (10,3%), che insieme contribuiscono a circa un quarto della mobilità passiva; un ulteriore 28,5% riguarda Lombardia (7,9%), Puglia (7,4%), Calabria (6,7%), Sicilia (6,5%).
C’è da segnalare la Lombardia tra le prime sei regioni con una più elevata mobilità passiva, a cosa è dovuto? «Verosimilmente – spiegano dall’Osservatorio Gimbe – questo documenta specifiche preferenze dei cittadini agevolate dalla facilità di spostamento tra Regioni del Nord con elevata qualità dei servizi sanitari, la cosiddetta mobilità di prossimità».
Nonostante il 7,9% degli ammalati lombardi abbia scelto strutture fuori dai “confini”, la Lombardia ha un tale potere di attrazione di pazienti che riesce a guadagnare poco più di 800 milioni nel saldo finale. Tenendo conto della popolazione residente (60.483.973 abitanti al primo gennaio 2018, dati Istat) è stato valutato anche l’impatto economico pro-capite della mobilità sanitaria: la Lombardia guadagna 78 euro per residente; Emilia Romagna 69 euro; la Toscana 34, il Veneto 29 euro; dall’altra parte la Calabria perde 144 euro per abitante, la Basilicata 92 euro, la Campania 55 euro, la Puglia 51 euro, 49 la Sicilia.
UNA TORTA DIVISA MALE
I cosiddetti “viaggi della speranza” sono il frutto di anni di iniquo riparto del fondo sanitario che ha spaccato in due l’Italia. Per anni, le Regioni del Nord hanno beneficiato di fette maggiori della “torta”, hanno potuto sforare i limiti di spesa per il personale, potendo così allargare le loro piante organiche e offrire servizi più efficienti e rapidi. Di conseguenza, hanno attratto pazienti da altre aree del Paese e hanno, ulteriormente, arricchito le loro casse con la mobilità passiva. Se la sanità italiana viaggia a due velocità diverse è per l’iniquità dei criteri adottati per ripartire le risorse: oggi la Puglia (popolazione: 4 milioni e 100mila abitanti) ha circa 40mila dipendenti impiegati nel comparto sanitario, l’Emilia Romagna (4,4 milioni di residenti) ne ha 56mila, il Piemonte (4,3 milioni) 55mila, la Toscana 60mila, il Veneto 54mila.
Ma come si arriva a tutto questo? Bisogna fare un passo indietro e tornare al riparto del fondo sanitario nazionale: per determinare la quota che spetta ad ogni Regione, dovrebbero essere pesati quattro elementi: popolazione residente, frequenza dei consumi sanitari per età e per sesso, tassi di mortalità della popolazione, indicatori relativi a particolari situazioni territoriali. Ma dove si nasconde il trucco?
IL TRUCCO
La quota capitaria, in realtà, è stata pesata, per circa il 40%, tenendo conto solo del criterio del sesso e dell’età, mentre gli ultimi due parametri non sono mai stati presi in considerazione. Utilizzando solo la ponderazione per età sono state privilegiate le regioni con una maggiore popolazione anziana, cioè quelle del Nord. La Puglia, ad esempio, negli ultimi 13 anni ha avuto tre miliardi in meno (LEGGI LA NOTIZIA) rispetto all’Emilia Romagna.
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Se hai più soldi, puoi spendere di più e meglio, persino sforando il tetto imposto. Ed è quello che hanno fatto Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna: la legge Finanziaria del 2010 impose un vincolo alla spesa per il personale sanitario, ogni regione, fu deciso dal governo Berlusconi, avrebbe potuto investire al massimo la stessa somma del 2004 ridotta dell’1,4%.
Un vincolo, però, che, come certifica la Corte dei Conti, è stato bypassato (LEGGI LA NOTIZIA): nel 2018, rispetto al 2004, al Nord i costi per assumere nuovi dipendenti negli ospedali sono lievitati di oltre il 23%, mentre al Mezzogiorno solo dell’8,5%. Uno scarto di quasi 15 punti. Meno soldi da investire e meno personale, uguale meno servizi da offrire al cittadino. Nella bozza del nuovo Piano della Salute si sta cercando di intervenire ma sono forti le resistenze, in particolare si vorrebbe superare l’ottica della compensazione economica fra Regioni. Nella bozza è previsto che il Governo e le Regioni si impegnano a mappare i flussi per tipologia di prestazione, ad individuare la corrispondenza con situazioni specifiche di carenza dell’offerta ed a redigere un “Piano di contrasto” alla mobilità passiva, potenziando la capacità di offerta nei settori rivelatisi critici.
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