La sede della Commissione Europea
5 minuti per la letturaL’Italia cresce poco e sempre meno. L’obiettivo di ridurre il gap con la media europea si allontana, sembra ormai praticamente irraggiungibile. L’ultima “mazzata” arriva dalle nuove previsioni di crescita rese note ieri dalla Commissione europea, che registrano un rallentamento generale del ciclo economico nel vecchio continente, complici la Brexit, le tensioni internazionali, la guerra dei dazi e il rallentamento degli scambi internazionali.
FANALINO DI CODA
In questo scenario la debole economia italiana paga le conseguenze maggiori. Il nostro Paese è ultimo in Europa per crescita del pil, investimenti e andamento dell’occupazione. Il prodotto interno lordo nell’anno in corso è stimato ad un risicato +0,1%, gli investimenti sono addirittura previsti in diminuzione dello 0,3% rispetto al 2018, il tasso di occupazione dovrebbe far registrare il -0,1%, unico segno meno in Europa. È vero che gli ultimi dati Istat riferiti al primo trimestre del 2019 registrano una crescita congiunturale (rispetto al trimestre precedente) del +0,2%, ma certo questo dato sposta nulla o quasi sulla valutazione complessiva.
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Per salire in questa classifica, che ci vede agli ultimi posti tra i partner europei, l’Italia non può più permettersi di avere una parte del Paese, il Mezzogiorno, “condannata” a restare indietro rispetto al resto del territorio nazionale che pure arranca. Un potenziale di crescita inespresso, perché il meccanismo della spesa pubblica e degli investimenti penalizza le regioni del Sud, con conseguenze negative sull’apertura dei cantieri per opere pubbliche, sui servizi resi ai cittadini a danno delle fasce più deboli, sull’occupazione. Insomma, il sistema nel suo complesso si è avviluppato su se stesso e ora rischia di implodere.
Anche perché oggi è pure il Centro Nord che fatica a restare al passo con le economie più avanzate del Paese, come avveniva fino a qualche anno fa, e come può si avvale di forme di assistenzialismo. È giunto il momento di cambiare la “ricetta” per favorire una crescita robusta e il più omogenea possibile su tutto il territorio nazionale, che consenta al Sud di recuperare rispetto al Centro Nord e ai cittadini che risiedono e operano nel Mezzogiorno di poter contare su servizi pubblici analoghi a quelli delle altre regioni.
UNA RICETTA SBAGLIATA
Quella messa in atto fino ad ora ha favorito un Paese a due velocità ed ore le conseguenze le pagano sia il Sud che il Nord. Molti gli indicatori, sottolineati dalle pagine di questo giornale, che testimoniano le distorsioni che negli anni hanno penalizzato il Mezzogiorno frenandone la crescita. Primo fra tutti, la spesa pubblica che viene utilizzata in modo sbilanciato.
Nell’ultimo Documento di economia e Finanza (Def 2019) il governo si impegna ad avviare il riequilibrio territoriale, dando seguito alla norma del decreto legge 243 del 2016 che prevede la quota riservata del 34% (proporzionale alla popolazione residente) per gli investimenti ordinari delle pubbliche amministrazioni centrali.
Nel Def sono indicati i programmi assoggettati alla quota, individuati al momento in via sperimentale da cinque ministeri: Salute, Infrastrutture e Trasporti, Giustizia, Interno Istruzione. Ma l’attuazione è rimandata ad un decreto, da emanarsi entro il 30 giugno.
Bisogna aspettare ancora. Fino a oggi l’assegnazione delle risorse è avvenuta in base alla spesa storica, con il paradosso di favorire le regioni più ricche e organizzate, che erogano maggiori servizi e di migliore qualità. Anche la definizione dei cosiddetti fabbisogni standard, che indicano livelli base delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale, non tiene conto dei servizi che non sono obbligatori ma che migliorano la qualità delle vita dei cittadini: asili nido, mensa scolastica, pre-scuola e doposcuola, centri estivi.
Vengono recepiti nei fabbisogni dei singoli Comuni laddove quei servizi vengono già erogati, ma se un Comune della Calabria sprovvisto di asilo nido volesse aprirne uno non potrà contare sulle risorse pubbliche derivanti dalla perequazione.
COSTRETTI A TASSARE
Ricevendo meno risorse pubbliche, ma dovendo comunque assicurare un livello adeguato di servizi, gli enti territoriali sono stati costretti ad elevare le imposte con la conseguenza che, secondo un recente Rapporto Svimez, nel periodo 2007-2016 la pressione fiscale al Sud è aumentata del 2,6% toccando il 32,1%, un livello più alto che nel Centro Nord dove si colloca al 31,5%. Sud dimenticato anche sul fronte delle opere pubbliche.
I progetti per il Nord, senza considerare la travagliata tratta ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, ammontano a 52,4 miliardi, al Sud si fermano a 7,1 miliardi a cui vanno aggiunti 4,6 miliardi per l’alta velocità Bari-Napoli che sembra essere sbloccata. Tuttavia il Nord ha smesso di trainare lo sviluppo del Paese e fa sempre più ricorso al famoso ‘posto fisso’ pubblico smentendo un luogo comune che vedrebbe al Sud una prevalenza di occupazione nel settore pubblico. Secondo i dati Istat contenuti nel censimento permanente delle istituzioni pubbliche del 2011-2015 i dipendenti pubblici del Centro Nord sono aumenti di 26.000 unità mentre al Sud si sono ridotti di 14.000 unità.
Nel complesso, gli statali al Nord sono 1.471.533, al Sud e isole raggiungono 1.227.084 unità. C’e’ poi la quota delle regioni del Centro con 774.201 unità, e in questo caso Roma, sede dei Ministeri, ha un peso particolare. Ma un altro dato salta agli occhi. Nella pubblica amministrazione il taglio dei contratti a tempo indeterminato al Sud è stato quasi il triplo che al Nord, il 5,8% contro l’1,7%. Anche il reddito di cittadinanza sembra essere uno strumento che interessa il Nord, molto più di quanto si ipotizzasse al momento del varo della misura.
Se il picco delle richieste si registra in Campania, la Lombardia supera la Calabria e occupa una posizione analoga a quella della Puglia. Regioni ricche come Veneto, Toscana ed Emilia Romagna sono a metà della classifica.
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