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Il Banchiere e la moglie Marinus Van Reymerswaele

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Pubblichiamo il secondo stralcio tratto dal libro  “Il Cigno nero e il Cavaliere bianco” di Roberto Napoletano, pubblicato nel 2017 per le edizioni La Nave di Teseo (LEGGI IL PRIMO QUI).

Anche se vi potrà sembrare paradossale ma l’accordo del gennaio di due anni fa tra Luxottica e Essilor che dà vita al primo gruppo di occhialeria mondiale mi ha molto colpito per almeno due motivi.

Primo: nella nazionale dei campioni del Made in italy, quello che abbiamo costruito o che è rimasto dopo che abbiamo perso chimica, informatica, elettronica e chi più ne ha più ne metta, Luxottica è in prima fila e ne è la bandiera. Secondo: non è possibile che anche dove siamo i primi in assoluto e ci siamo misurati con i mercati di tutto il mondo, siamo costretti a scoprire che abbiamo fatto tutto ciò senza essere stati capaci di generare una nuova leva familiare o manageriale in grado di guidare e consolidare la crescita del gruppo.

No, questo no, è troppo e misura la complessità del problema italiano legato sovente alla politica in modo riduttivo e ingiusto.

In questo diario della Grande crisi italiana questo è un passaggio significativo. Non è facile, certo, gestire una multinazionale del livello di Luxottica con sei figli, due mogli, una compagna, e tutti che aspirano a un pezzo più o meno grande di eredità. Resta il fatto che Il primo azionista del nuovo gigante sarà Delfin, la holding di famiglia di Del Vecchio, ma la società verrà delistata dalla Borsa di Milano, sarà quotata a Parigi e di fatto, con molta probabilità, quando il patron italiano si ritirerà, il timone del primo gruppo mondiale di occhialeria passerà in mani francesi.

Sul Sole 24 Ore scrivo un editoriale di cui riproduco di seguito un estratto: “Questo è il frutto (amaro) di un capitalismo familiare italiano tanto geniale, in questo caso di talento e di successo cosmopoliti, quanto spesso incapace di superare l’ultimo miglio: dotarsi di una governance stabile all’altezza delle sfide che ha davanti. Luxottica, in estrema sintesi, partecipa con intelligenza a un grande progetto industriale e finanziario, ma paga il conto di essersi trovata nelle condizioni di non avere un manager forte per guidare la società nei prossimi anni. Non vorremmo che il copione si ripetesse presto con altre grandi firme del Made in Italy. Senza un salto di qualità che riguarda direttamente il capitalismo italiano, il suo assetto familiare e la sua capacità di assicurarsi una governance adeguata, nemmeno un’eventuale correzione delle storture della Vigilanza bancaria europea che indeboliscono il sistema bancario italiano e, di riflesso, il suo sostegno alle imprese, potrà essere di reale utilità. Non ha senso l’asimmetria tra i level 3 assets e le sofferenze bancarie italiane con le conseguenti differenti esigenze di rafforzamento del patrimonio, ma la questione del capitalismo familiare italiano, sul punto della governance, è molto seria e richiede un salutare bagno culturale, realismo manageriale e coraggio di girare pagina rispetto al passato per grandi e piccoli player. Anche qui, non esistono scorciatoie, devono cambiare le teste e i comportamenti. Se non succede, la colpa è solo nostra”.

Scrivo queste poche righe sul Sole 24 Ore e Leonardo Del Vecchio prende penna e carta, spedisce una lettera al presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, per annunciare la sua uscita dalla organizzazione e lo investe al telefono di giudizi quanto meno graffianti presumibilmente diretti a me. Boccia mi chiama e mi prega di cercare Del Vecchio, cosa che faccio senza problemi per la stima e la consuetudine, e comincio la telefonata con il solito refrain: non vorrà mica credere che voglia litigare con un grande come lei che è nato peraltro il 22 maggio esattamente come me? Non ha molta voglia di scherzare e ha molto da ridire sul giornale, lo lascio sfogare, e lo sento ripetere più volte: non si preoccupi lei direttore perché alla mia famiglia ci ho pensato io, abbiamo fatto una grandissima operazione industriale, ora posso finalmente stare tranquillo, non capisco perché anche voi dovete far credere che ho ceduto l’azienda. A un certo punto, sbotta: sono stufo di tutti questi manager che si vendono il mio lavoro e mi fanno fare solo errori. Io sto lì a spiegargli senza successo che il problema numero uno del capitalismo familiare italiano è proprio quello di non riuscire a darsi un assetto manageriale stabile dove successione familiare e organizzazione moderna di profilo internazionale convivono naturalmente.

A un certo punto, mi viene: se non ci riesce nemmeno lei, se dobbiamo prenderci l’amministratore delegato della cooperativa francese di Essilor anche alla Luxottica quando anche lei giustamente vorrà riposarsi, allora vuol dire che siamo messi davvero male! E lui: direttore non si preoccupi, abbiamo fatto la più bella delle operazioni possibili, io e i miei eredi siamo lì, Agordo è lì e resta la capitale del mondo dell’occhialeria mondiale, i lavoratori conserveranno il loro lavoro a casa loro, che cosa si vuole di più?, anzi questi lo scriva per favore che, magari, aiuta.

L’operazione industriale è davvero bellissima, Del Vecchio non lascerà Confindustria, la famiglia avrà reddito per un paio di generazioni, l’uomo è un genio assoluto, come dargli torto! Eppure il ricordo della sua telefonata mi apre un lampo davanti agli occhi: e mi ritrovo al ventottesimo piano del grattacielo di Unicredit, a Milano, nella stanza di Jean Pierre Mustier, neo amministratore delegato, per un saluto prima della pausa estiva. Lo rivedo aprire e chiudere un quaderno di appunti in italiano, lo sento ripetere: sto studiando, sto studiando. E poi la domanda di sempre: a te come va, bene? Sì, bene rispondo. E lui: a Unicredit molto bene. Poi Louise Tringstom, simpatica e garbata, che non ci lascia mai e passa dal francese all’inglese e all’italiano, in mezzo l’alce Elkette, una specie di mascotte di peluche, che espongono e accarezzano, a volte sembra quasi che dialoghi con loro. Soprattutto, mi rimane impressa una frase: “Se dovessi fare un confronto tra Italia e Francia, dovrei dire che siamo noi a dover essere più preoccupati”. Lo interrompo: “Non avete i campioni nazionali e una buona finanza?”. E lui: “Non mancano eccellenze ma molti sono diventati oligopolisti, hanno meno intuizioni, la verità è che rischiamo di declinare, ovviamente mi auguro il contrario. Invece qui tra Lombardia e Emilia, mezzo Piemonte, mezzo Veneto, ci sono le multinazionali tascabili, il segno di un’economia più dinamica e credo che queste aziende con la velocità salveranno l’onore dell’Italia nel mondo. Certo anche voi avete bisogno di meno tasse e meno burocrazia…”. No Mustier, la prego, ha ragione, ma non ci si metta anche lei. Sappiamo che è così, ma ci piace dircelo da soli, sappiamo che le cose sia pure lentamente stanno cambiando e, soprattutto, vorremmo potere dimostrare a noi stessi da qui a qualche tempo che le cose sono cambiate per davvero in profondità.

Mi piacciono i complimenti, ma mi piace molto meno quel desiderio di fare shopping in Italia che intravedo dietro gli occhi di troppi francesi. Perché i gioielli italiani dovrebbero finire nello stato patrimoniale dei dinosauri oligopolisti francesi? E, se per ventura, questi sono davvero anche i suoi obiettivi, monsieur Mustier ci risparmi almeno la civilissima presa in giro. Ne facciamo volentieri a meno. Per capire che cosa sono i gioielli italiani che fanno gola ai dinosauri oligopolisti francesi in declino, parola di Mustier, quanto pesa il matrimonio da 50 miliardi di capitalizzazione Luxottica-Essilor che riguarda la bandiera italiana di questo tipo di imprese, bisogna prima di tutto avere chiaro che non hanno nulla a che fare con il capitalismo relazionale delle grandi famiglie italiane che se non ci fosse stato il genio di Marchionne e l’intelligenza di JohnElkann di sostenerlo e coadiuvarlo preservando la Fiat tra i player globali e investendo in Italia e nel mondo, vede i suoi nomi più blasonati – Olivetti, Montedison, Pirelli, Italcementi – condannati all’inesistenza o alla cessione in mani proprietarie francesi, cinesi, tedesche.

Una condanna senza appello per le grandi famiglie del Nord, in alcuni casi, tanto presuntuose e tanto desiderose di continuare a dare lezioni di ogni tipo quanto bocciate dal mercato. Per capire davvero in profondità che cosa è il capitalismo sano italiano, quello che piace tanto a Mustier, bisogna avere la fortuna come è capitato a me di trovarsi nella terza panca del duomo di Alba il giorno dell’addio a Michele Ferrero, forse il più innovativo e il più schivo tra i capitani di questo specialissimo capitalismo familiare italiano, con a fianco un medico, Francesco Morabito, che guida da un bel po’ la azienda sanitaria locale di Alba (“mi sono trasformato in un burocrate ma resto un medico”) e mi spiega, con poche battute, chi era davvero il “signor Michele” e come ha fatto a mettere insieme intuito, genio, fabbrica e welfare, giovani e anziani, in una “terra grama” popolata da contadini poveri. Mi dice, a voce bassa, quasi sussurrando in un orecchio: “Ha avuto una grande intuizione, ha mandato un pulmino tra le colline langarole e ha detto a tutti: continuate a fare l’orto e a coltivare la terra il pomeriggio e nel week end, ma venite qui da me la mattina a fare la cioccolata migliore del mondo”.

Parla dell’uomo che è riuscito a convincere i tedeschi che la Nutella è tedesca e i francesi che la Nutella è francese, e lo fa con il rispetto e il trasporto che può avere solo chi lo ha conosciuto e frequentato da vicino. “Direttore, lo vede quel carabiniere, sta lì fermo in piedi a fianco dell’altare da due giorni, non so come fa, veglia sul signor Michele e la sua presenza immobile, soddisfatta, è il tributo più evidente a un uomo che ha liberato il Sud del Nord dalla malora fenogliana. Ha visto in quanti sono fuori nella piazza? Guardi dietro l’altare, sono i sindaci delle Langhe e del Roero e ci sono tutti, mi creda che la Ferrero qui entra nelle case e non ti abbandona nemmeno quando vai in pensione perché così voleva il signor Michele, lui ha costruito la fabbrica per l’uomo in modo pragmatico, e si è preoccupato anche del dopo perché gli anziani della Ferrero devono stare bene, devono avere il welfare che meritano, solo così questa terra riuscirà a preservare il suo capitale più importante” è un fiume in piena il direttore della asl, Morabito, lui sa o mostra di sapere che senza il signor Michele questo territorio poteva diventare un grande acquitrino, e ha voglia di raccontarti tutto a voce bassa ma con i fatti e scandendo bene le parole. È come se ti volesse dire che qui l’utopia olivettiana è diventata realtà perché non alimentava un sogno ma custodiva il desiderio pragmatico di fare incontrare fabbrica e territorio, la genuinità e la qualità dei prodotti della terra e i suoi contadini poveri (…)


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