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Il premier Giuseppe Conte

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Caro Governo, ti scrivo.

Ti scrivo una lettera che sarà più lunga di un tweet, ma meno lunga di un tomo. L’imminente Consiglio dei ministri dovrà prendere decisioni importanti, decisioni che daranno la cifra di questo Governo. Ecco la missiva, che si compone di una premessa, di tre punti e di una conclusione.

Premessa

Non so quanti, fra quelli che siedono attorno al tavolo del Consiglio, si rendono conto che stiamo camminando su un crinale stretto e scivoloso, e ai due lati si apre il baratro della crisi finanziaria. Poco tempo fa il ministro Tria si compiaceva del fatto che lo spread aveva “bucato” quota 240. Una diminuzione che ebbe una vita più breve di quella di una farfalla, e oggi lo spread – questo indice di affidabilità finanziaria – fa segnare quota 260, contro 100 per la Spagna e 110 per il Portogallo.

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Sì, la Bce compra i nostri titoli di Stato, ma questo compratore di ultima istanza non sarà lì per sempre. E in ogni caso uno spread a 260 non è solo una pagella disonorevole: sono miliardi di euro che vengono gettati nella fornace del debito da un Governo che crea una spesa improduttiva, togliendo ossigeno a quelle produttive e/o ponendo le premesse per andare a pescare prima o poi più soldi dalle tasche degli italiani.

Nubi all’orizzonte

All’orizzonte si addensa poi una manovra per il 2020 che fa tremare le vene e i polsi. Caro Governo, il tuo vice-premier Salvini dice che i 23 miliardi della clausola di salvaguardia andranno a liquefarsi una volta che le elezioni europee avranno spazzato via la vecchia guardia di una Commissione impaniata nell’austerità. Ma il bersaglio è sbagliato. Non è della Commissione che dobbiamo preoccuparci, ma dei giudizi del mercato.

I titoli di Stato sono da vendere a risparmiatori e investitori, gente occhiuta (più della Commissione, che spesso predica male e razzola bene) che devono decidere se vale la pena continuare a rinnovare i titoli che scadono. Come evitare di scivolare fuori dal crinale? La via principe è una sola: riprendere a crescere, uscire dalla stagnazione. Cercate la crescita e, come dice il Vangelo, «tutto il resto vi sarà dato». Il che ci porta al primo dei tre punti promessi.

CANTIERI

La crescita si fa con gli investimenti, che hanno un moltiplicatore più elevato rispetto ad altre forme di stimolo. E, nelle temperie di oggi, con un settore privato che ha una comprensibile titubanza ad investire e a consumare (basta vedere gli indici di fiducia delle imprese e delle famiglie), gli investimenti da far partire sono quelli pubblici. E quando si dice ‘far partire’ non vuol dire stanziare soldi. I soldi ci sarebbero, ma gli investimenti non partono a causa della disperata e disperante farragine delle procedure e dei ritardi, per non parlare dei casi – vedi Tav – dove il ‘far partire’ patisce addirittura un veto governativo. La situazione dei cantieri è stata descritta su queste colonne con dovizia di cifre il 12 aprile. Caro Governo, se c’è bisogno di commissariare per tagliare il nodo gordiano di lacci e lacciuoli, commissaria pure. L’importante è far partire i cantieri e dare una spinta alla crescita. E, soprattutto, dare priorità agli investimenti al Sud, che sono, come riportato da questo giornale, orfani di fondi. L’Italia non riparte se il Sud non riparte. Il catch up del Mezzogiorno è il più grosso giacimento di crescita potenziale disponibile nella Penisola. E, parlando di Sud, veniamo al secondo punto.

AUTONOMIA DIFFERENZIATA

Il punto è delicato ma cruciale. La maggiore autonomia regionale è cosa buona e giusta, ma tutto dipende da come viene fatta. Già il 19 aprile questo giornale ha documentato come un’applicazione dell’autonomia differenziata che parta dalla spesa storica per trasferimenti alle Regioni non farà altro che allargare il solco fra ricchi e poveri. Per evitare quest’infausto esito c’è una sola via. Definire i fabbisogni standard di servizi pubblici, per tutti i servizi, e calibrare i trasferimenti e le competenze in modo che non ci siano cittadini di serie A e di serie B, in modo che, per esempio, gli asili nido per tot di popolazione siano gli stessi a Gioia Tauro e a Cantù. E lo stesso dicasi per la sanità, per la scuola e via discorrendo. È questo il momento giusto: approfittare del dibattito e dei provvedimenti per l’autonomia differenziata al fine di correggere antiche storture, che hanno fatto molto per perpetuare quell’incolmato solco fra il Nord e il Sud del Paese.

OLIARE IL MOTORE DEL GOVERNO

Governare non vuol dire solo affacciarsi al balcone (e meno male che non era quello ‘storico’) per annunciare al colto e all’inclita che «abbiamo sconfitto la povertà». E nemmeno vuol dire far approvare disegni di legge più o meno efficaci. Vuol dire anche e soprattutto usare della capacità tecnica dell’amministrazione per applicare in concreto i provvedimenti che appaiono, nero su bianco, nella Gazzetta Ufficiale. Da questo punto di vista, è un peccato che nel Governo si siano levate voci critiche (per pudore non ripeto quello che disse il portavoce del Presidente Conte, Rocco Casalino) nei confronti del più efficiente dei nostri ministeri, il Mef. Se si vogliono, come detto sopra, far ripartire i cantieri, le competenze tecniche e la conoscenza della macchina governativa, a livello statale e locale, si trovano soprattutto nel Mef. Caro Governo, è stata una storica mancanza degli esecutivi del dopoguerra quella di preoccuparsi della politica più che dell’amministrazione. Ma, da un “Governo del cambiamento”, ci aspettavamo di meglio.

E veniamo alla CONCLUSIONE

Per favore, preoccupatevi del bene comune. Non è una conclusione trita. È una sconsolata esortazione cui spinge lo spettacolo di una costante ‘lite delle comari’ fra le due anime del Governo. Un certo grado di competizione fra due partiti che non si aspettavano di finire a governare assieme è fisiologico, e magari la competizione oscilla fra il fisiologico e il patologico quando si avvicina una scadenza elettorale. Ma mai nella storia d’Italia si era assistito a un così plateale disamore all’interno del Governo. Mai i calcoli di bottega elettorale avevano preso una tale distanza dall’interesse e dal bene del Paese.


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