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«Se ne stanno andando tutti là». A parlare è un investigatore scafato, con alle spalle migliaia di arresti ed esperienze maturate in territori difficili, al Sud. Soprattutto in Calabria. «Qua». Il Nord è «là». E la ‘ndrangheta, una cosa multiforme che riesce ad essere qua e là, sopra e sotto, a destra a sinistra e al centro, una piovra con i tentacoli al Nord e la testa, ovvero il centro di comando, al Sud, oggi è «più là che qua». Perché anche «là» le filiali delle cosche radicate in Calabria si muovono con una relativa autonomia, e i fiumi di denaro investiti tornano soltanto in parte «qua». E anche se gli analisti di Dia e Dna non si addentrano in proiezioni, facili da smentire perché le valutazioni non sono da tutti condivise e c’è pure chi minimizza, una cosa sembra certa: sul fatturato annuo della ‘ndrangheta – quello che in base alle stime più recenti e attendibili si aggira intorno ai 55 miliardi – il “sistema Nord” pesa per «oltre l’80 per cento».
Stavolta possiamo dirlo chi è a parlare. E’ uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta nel mondo, il professor Antonio Nicaso. Del resto, ogni settimana si contano varie operazioni antimafia al Nord Italia. Soltanto nella settimana che è iniziata lo scorso 11 marzo, lunedì sono scattati 19 arresti tra Bergamo e Brescia contro una cellula dei clan reggini che dettava legge con minaccia e violenza nel settore dei trasporti. Martedì 12, invece, manovra a tenaglia contro le proiezioni al Nord della super cosca di Cutro capeggiata dal potente boss Nicolino Grande Aracri. Tre operazioni in un solo giorno. Trentatré arresti con cui è stata sgominata l’articolazione operante nel Padovano e nel Vicentino, inchiesta che il capo della Dda di Venezia, Bruno Cherchi, ritiene il colpo più duro mai inferto ai clan del Nord Est; un sequestro di 40 milioni a carico della “filiale” cremonese della cosca; e un impero da dieci milioni confiscato a un imprenditore contiguo al boss e la cui sede amministrativa era a Milano. Ma le radici non si dimenticano. La settimana successiva è cominciata con un’altra retata della Dda di Torino che ha fatto balzare all’attenzione nazionale perfino l’esportazione del rito religioso vibonese dell’Affruntata in quel di Carmagnola da parte del clan Bonavota.
Ma torniamo alla stima proposta dal professor Nicaso. L’80 per cento di 55 miliardi fa 44 miliardi. A tanto ammonterebbe il giro d’affari che muove una ‘ndrangheta che investe poco al Sud e molto fuori dalla Calabria, anche per non dare nell’occhio. Una ‘ndrangheta fortemente proiettata verso il Centro-Nord, per cui in Calabria restano soltanto le briciole. Al Sud i delitti e al Nord gli affari, secondo un copione già visto. Da dove nasce questo dato è presto detto, e ce lo spiega sempre Nicaso.
Uno. «La cocaina sequestrata in Italia è in gran parte riconducibile alla ‘ndrangheta, almeno per il 70 per cento secondo valutazioni delle forze dell’ordine». E’ un dato ormai consolidato, del resto, che la ‘ndrangheta sia detentrice del monopolio dei traffici tanto da aver scalzato da tempo Cosa Nostra. Per quanto riguarda la cocaina, la capitale dei sequestri non a caso è Reggio Calabria, che è anche capitale della ‘ndrangheta, dove nel 2017 sono stati sequestrati quasi 2mila chilogrammi di polvere bianca. Qualcosa come 345 grammi ogni 100 abitanti.
Due. «La ‘ndrangheta è l’unica organizzazione criminale che ha determinato lo scioglimento di consigli comunali in regioni diverse da quella in cui è nata. Questo significa che si è ormai radicata in altre province non solo per gestire attività illecite ma è già alla fase successiva, che consiste nell’entrare nelle istituzioni. Non a caso c’è chi parla di “colonizzazione”», dice Nicaso con evidente riferimento all’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia. Gli scioglimenti per infiltrazioni della ‘ndrangheta sono stati nei Comuni di Bordighera e Ventimiglia (poi annullati) in provincia di Imperia nel 2011, Leinì e Rivarolo Canavese (Torino) nel 2012, Sedriano (Milano) nel 2013, Brescello (Reggio Emilia) nel 2016, Lavagna (Genova) nel 2017.
Tre. «La ‘ndrangheta è l’organizzazione a cui sono stati sequestrati e confiscati più beni». Siamo andati a spulciare il dossier “Il rapporto mafia e impresa: il caso della ‘ndrangheta nell’economia lombarda”, realizzato dalle Confcommercio di Milano, Lodi, Monza e Brianza in collaborazione con l’Università degli studi di Milano. Un dossier che opportunamente evidenzia che la Lombardia è la prima regione al Nord per aziende confiscate alla criminalità organizzata. I tentacoli sono su edilizia, logistica, turismo, ristorazione, rifiuti… Se, infatti, secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, in Italia, sono 4000 le aziende tolte alle mafie di cui 1316 soltanto in Sicilia, a seguire vi sono la Campania con 707 aziende confiscate, il Lazio con 608 unità e la Calabria con 471.
«È sorprendente come la quinta regione per numero di aziende confiscate sia proprio la Lombardia che con 345 unità supera la Puglia che ne vanta 239». In termini di aziende confiscate, il peso aggregato delle province di Milano, Monza Brianza e Lodi sul territorio lombardo è di 79,42%. Ma delle 345 aziende confiscate alla criminalità organizzata in Lombardia, 242 sono nella città metropolitana di Milano che spicca sul suolo lombardo per numero di aziende confiscate immediatamente seguita dalla provincia di Monza Brianza con 30 unità. «È interessante rilevare come la maggior parte delle aziende confiscate si collochi nella città metropolitana di Milano – è detto nel dossier – Ciò dunque ci porta a sottolineare l’interesse della criminalità organizzata ad investire prevalentemente in quelle aree portatrici di uno sviluppo economico fiorente quale è appunto quest’area. A giustificazione dell’attrattività del capoluogo lombardo, i dati di Movimprese ci dicono che la città metropolitana di Milano assorbe il 36,5% del totale delle imprese attive in Lombardia». Ora, come accertato dalla storica sentenza Crimine Infinito, la ndrangheta opera in Lombardia con almeno 16 “locali”, attivi nelle province di Milano, Como, Monza, Brianza e Lecco, proiezioni di alcune fra le più importanti cosche della Calabria, soprattutto reggine e vibonesi.
Ma questo è soltanto il dato della Lombardia, in quanto in quelle che un tempo erano considerate le aree di espansione non tradizionali della ‘ndrangheta bisogna assolutamente includere l’Emilia Romagna, il Lazio, il Piemonte, il Veneto, la Liguria, la Valle d’Aosta. Anche là vi sono beni confiscati. E allora la quarta posizione della Calabria potrebbe risalire rapidamente.
Ce n’è abbastanza per rendersi conto di quanto di verosimile ci sia nella stima del professor Nicaso, ma anche in quella considerazione: «Se ne stanno andando tutti là».
Un’espansione che non è più soltanto infiltrazione e che, prima di arrivare alla “colonizzazione”, si è realizzata per via imprenditoriale, attraverso la logica degli affari, e per via organizzativa, seguendo la «logica dell’appartenenza» (mirabile in tal senso la ricerca della Fondazione Res “Mafie del Nord a cura di Rocco Sciarrone, 2014), seguendo modalità eterogenee a seconda dei diversi contesti territoriali. Differenti modelli di insediamento, che dimostrano come sia ormai superata la tesi secondo cui vi siano territori immuni dalla permeabilità della ‘ndrangheta, secondo la conclusione a cui era arrivato Enzo Ciconte nel dossier commissionatogli qualche anno fa dall’allora sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. Proprio Reggio Emilia si è rivelata l’epicentro di una piovra radicata, in grado di avviluppare pezzi di imprenditoria, professionisti insospettabili, politici locali. L’aspetto più inquietante che emerge dalle inchieste degli ultimi anni consiste, infatti, nella formazione di un’area grigia anche nelle aree del Centro Nord, costruita attraverso giochi di collusione tra le sfere dell’economia e della politica e la ‘ndrangheta “colonizzatrice” che ormai, rispetto ad altre mafie, ha le competenze professionali per realizzare accordi nell’ombra. La consacrazione avviene con l’inchiesta Aemilia, da cui è scaturito il processo più grande contro le mafie mai celebrato al Nord (basti qui ricordare solo le condanne per 1200 anni del rito ordinario dell’ottobre scorso). Perfino i più grossi industriali emiliani, nonostante solide relazioni con coop rosse e istituzioni locali, vanno a braccetto con gli imprenditori di riferimento di una ‘ndrangheta che dispone di enormi capitali che al Nord, a quanto pare, non fanno schifo.
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