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Recupero di cibo ancora adatto per una redistribuzione solidale

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Inefficienze industriali e divari regionali: senza le sinergie giuste, l’obiettivo fissato dall’ONU di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030 è a rischio


Gli sprechi alimentari non sono solo uno spreco di cibo, ma un colossale fallimento economico e ambientale che coinvolge ogni singolo cittadino. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Waste Watcher International nel suo rapporto del 2023, ogni italiano butta via in media 524,1 grammi di cibo a settimana. Che corrispondono a circa 27,3 kg all’anno. Questo significa che, nelle case italiane, lo spreco alimentare ha un costo complessivo stimato dalla stessa organizzazione in 6,48 miliardi di euro all’anno.

Sebbene i dati segnalino una riduzione del 12% rispetto all’anno precedente, con il 2022 che registrava sprechi per circa 595,3 grammi a settimana, il problema rimane allarmante. Questo fenomeno non si manifesta in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. In Italia esistono profonde differenze regionali che riflettono diverse infrastrutture, sensibilità culturali e capacità di gestione delle eccedenze alimentari. Le regioni del Nord, come la Lombardia, mostrano una maggiore efficienza nella gestione degli sprechi. Grazie a iniziative come ZeroSprechi, che promuove il riutilizzo del cibo in eccesso a vari livelli della filiera. Questo permette di ridurre il peso dello spreco alimentare nella regione. Grazie a una collaborazione tra pubblico e privato che rende il sistema di distribuzione più fluido e meglio organizzato.

Al Sud, la situazione è più critica. Le regioni meridionali, come la Campania e la Calabria, registrano uno spreco maggiore. Con un +8% rispetto alla media nazionale, secondo quanto riferito da Waste Watcher. Qui la mancanza di una rete strutturata di recupero e redistribuzione del cibo, oltre a difficoltà logistiche e infrastrutturali, contribuisce all’aumento degli sprechi. Questa situazione evidenzia un chiaro divario tra Nord e Sud che deve essere affrontato con politiche più mirate e investimenti maggiori.

Se guardiamo al contesto europeo, vediamo che alcuni Paesi hanno adottato misure incisive per ridurre lo spreco alimentare, offrendo modelli che l’Italia potrebbe seguire. La Francia, ad esempio, ha implementato nel 2016 una legge che impone ai supermercati di donare il cibo invenduto alle associazioni benefiche, piuttosto che gettarlo via. Questo ha portato a una riduzione significativa degli sprechi e ha creato una cultura della donazione. Allo stesso modo, in Danimarca, creati supermercati che vendono esclusivamente cibo che, altrove, sarebbe stato gettato.

In Italia, con la Legge Gadda del 2016, si è cercato di promuovere la donazione di eccedenze alimentari. Ma la sua applicazione non è stata uniforme su tutto il territorio. Al Nord, i risultati sono più evidenti grazie a una maggiore organizzazione, mentre al Sud l’impatto è più limitato a causa delle già menzionate difficoltà strutturali.
Negli ultimi anni, la tecnologia ha iniziato a giocare un ruolo cruciale nella riduzione degli sprechi. Un esempio significativo è l’app Sprecometro, sviluppata da Waste Watcher International con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari dell’Università di Bologna. Questa app consente ai cittadini di monitorare il proprio comportamento alimentare e di adottare abitudini più sostenibili, riducendo gli sprechi grazie a un’analisi personalizzata dei propri consumi.

In parallelo, il progetto Lowinfood, finanziato dall’Unione Europea e coordinato dall’Università degli Studi della Tuscia, sta testando soluzioni innovative nella filiera agroalimentare per ridurre gli sprechi. Tra queste, software di intelligenza artificiale che prevedono accuratamente le vendite nei supermercati per evitare di ordinare più cibo del necessario, riducendo così le eccedenze non vendute. Questo progetto pilota sta già dando risultati promettenti, in particolare nel settore ortofrutticolo, dove le eccedenze non vendute vengono tracciate e redistribuite a enti benefici.

Un dato cruciale da considerare è che circa il 28% degli sprechi alimentari avviene a livello industriale, secondo un rapporto dell’Università di Bologna. A differenza degli sprechi domestici, che possono essere mitigati con un cambiamento nelle abitudini di consumo, gli sprechi industriali richiedono interventi più complessi, che vanno dall’ottimizzazione della produzione alla gestione delle eccedenze lungo la filiera. Una delle principali cause di spreco è legata alla fase di lavorazione delle materie prime. Molti prodotti agricoli, ad esempio, non vengono trasformati a causa di standard estetici imposti dalle aziende o dalla Gdo, la Grande Distribuzione Organizzata. Gli alimenti, in particolare frutta e verdura, che non rispettano determinati requisiti di forma, dimensione o aspetto vengono scartati, anche se perfettamente commestibili.

Un altro punto critico nella filiera industriale riguarda la fase di stoccaggio e trasporto. In questa fase, le inefficienze nella gestione delle temperature e la mancanza di una corretta logistica portano spesso al deterioramento del cibo, soprattutto quando si tratta di prodotti freschi o deperibili come carne, pesce e latticini. La catena del freddo, essenziale per la conservazione di questi prodotti, può subire interruzioni a causa di malfunzionamenti tecnici o ritardi nel trasporto, che provocano la perdita di tonnellate di alimenti.
Uno dei settori più critici è quello della panificazione, dove enormi quantità di pane restano invendute ogni giorno e successivamente scartate. Un altro settore vulnerabile è quello della pesca, dove gli sprechi sono spesso legati a normative complesse e alla difficoltà di prevedere le richieste del mercato.

Infine, un ulteriore elemento da considerare è la gestione delle eccedenze durante le promozioni e le campagne pubblicitarie. Spesso, per lanciare nuovi prodotti o per incentivare le vendite, le aziende sovrapproducono alimenti che, una volta terminata la promozione, rimangono invenduti. Questi prodotti, soprattutto nel settore dei beni confezionati, finiscono per essere scartati se non possono essere venduti in tempo utile, contribuendo agli sprechi industriali.
Sebbene l’Italia abbia fatto progressi nella riduzione degli sprechi alimentari, il cammino è tutt’altro che concluso. La questione non riguarda solo le abitudini individuali, ma coinvolge ogni attore della filiera, dall’agricoltore al grande distributore. Le tecnologie innovative, come l’intelligenza artificiale, e le soluzioni legislative come la Legge Gadda stanno dimostrando che il cambiamento è possibile. Tuttavia, senza una collaborazione più stretta tra il settore pubblico, privato e i cittadini, rischiamo di non raggiungere l’obiettivo fissato dall’ONU di dimezzare lo spreco alimentare entro il 2030.


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