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C’era una volta il posto fisso, il mercato malato del lavoro al Sud tra sommerso e precari: bisogno puntare sullo sviluppo e non sull’assistenza


Sommerso per molti significa non rilevato. E quando dico che invece l’Istat con i suoi sistemi di rilevazione riesce a misurare anche il lavoro non contrattualizzato e irregolare molti si stupiscono.
L’esempio che propongo in quei casi è quello della misurazione del numero degli animali selvaggi. E il tema viene compreso meglio se faccio riferimento alle specie marine, in particolare alle balene. Oggi, infatti, se ne stimano meno di 100.000 in tutti i mari del mondo.

Quindi faccio riflettere sul fatto che cosi come la comunità scientifica è in condizione di dare dati così complessi – considerato che nessuno pensa di togliere il tappo agli oceani e contare il numero esistenti degli animali di grande specie – nello stesso modo si possono contare i lavoratori non contrattualizzati o si possono fornire gli esiti delle votazioni, giorni in anticipo rispetto a quando lo fa il ministero.
E allora serve spiegare che esiste all’interno delle scienze statistiche una tecnica chiamata Teoria dei Campioni che riesce, con una probabilità di errore già definita molto piccola, in funzione della dimensione del campione rappresentativo, a misurare ciò che è sommerso.

LAVORO AL SUD TRA L’ASPIRAZIONE AL POSTO FISSO E IL SOMMERSO

Nel caso dei dati sull’occupazione che vengono forniti dall’Istat, con la rilevazione continua sulle forze lavoro, essi si ricavano da un campione di circa 200.000 famiglie rappresentativo di tutte le 20 milioni di famiglie esistenti nel nostro Paese.
In quel caso quindi sappiamo dalla differenza tra i dati amministrativi che fornisce l’Inps e quelli rilevati dall’indagine continua sulle forze lavoro che vi è una percentuale di sommerso nel Mezzogiorno attorno al 30%.
Ovviamente esso si distribuisce in modo diverso a seconda dei comparti. Per esempio nel turismo, nel quale il 60% dei lavoratori è part-time, il 55% a chiamata, il 40% è precario e il 20% stagionale e le retribuzioni sono notevolmente inferiori rispetto alla media degli altri settori economici e l’80% dei lavoratori è inquadrato ai livelli più bassi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di settore, la percentuale di sommerso è più elevata della media delle altre branche.

LAVORO AL SUD E POSTO FISSO, IL CASO DELL’AGRICOLTURA

L’agricoltura si presenta come il settore con la maggiore incidenza di unità di lavoro non regolari (24,5%, a fronte del 6,2% dell’industria e del 13,7% dei servizi) e con un tasso di irregolarità in forte aumento.
Storicamente, nel settore agricolo, l’utilizzo del lavoro irregolare può essere ricondotto ad una varietà molto ampia di cause come un sistema produttivo caratterizzato da aziende di piccole e piccolissime dimensioni. Infatti tali imprese impiegano un numero esiguo di lavoratori fissi ma, nei momenti di maggior attività, utilizzano molta manodopera stagionale, sia italiana che extracomunitaria.

Poi incide la stagionalità dell’attività agricola per cui si ricorre massicciamente al lavoro a giornata. Le difficoltà di reperimento di manodopera, che incentiva da parte datoriale il ricorso al lavoro stagionale, prestato anche da personale che, per motivi diversi (o perché in possesso di un altro lavoro o perché beneficiario di qualche forma di sussidio pubblico, o perché immigrato irregolarmente) non ha interesse ad essere regolarizzato, sono un’altra ragione; incide anche la difficoltà di rilevazione della presenza di sacche di lavoro irregolare, derivante dalle caratteristiche strutturali del luogo di lavoro, che prevedono la dispersione della manodopera su vasti spazi, difficilmente monitorabili. Insomma il settore è vocato alla presenza di lavoratori non contrattualizzati.

IL PROBLEMA DEL COSTO DELLE PRODUZIONI

Se poi si pensa che il valore aggiunto di molti prodotti agricoli è particolarmente basso si capisce che alcune produzioni possano continuare ad esistere soltanto se il costo del lavoro non supera certi limiti, per cui spesso ci si ritrova nella piaga dello sfruttamento, che alcune volte tracima in forme di schiavitù .
In particolare il Sud, che è caratterizzato da una presenza del settore manifatturiero molto limitata, nel quale la percentuale di sommerso è più contenuta, soffre maggiormente del fenomeno.
Ma il tema importante da non sottovalutare è che a fianco di forme di controllo attento ed avvertito è necessario che ci sia un cambiamento nella struttura occupazionale. Una maggiore presenza di grandi aziende manifatturiere, l’attrazione di multinazionali che si localizzano sul territorio, può rappresentare un elemento calmieratore di un mercato malato.

Non bisogna dimenticare che ancora si accettano lavori sottopagati, non contrattualizzati, in cui non è prevista alcuna forma di assicurazione, soltanto perché l’alternativa a tale tipo di sottoccupazione è l’emigrazione.
Diceva una economista inglese che “è meglio essere sfruttati che non essere nemmeno sfruttati”. Certo sarebbe meglio poter lavorare in modo dignitoso, potendo usufruire delle assicurazioni in caso di malattia, delle ferie pagate, dell’indennità di liquidazione. Ma in molti casi la scelta non avviene tra queste due alternative, ma tra essere Neet o andare nei campi riprendendo la cultura dei braccianti agricoli, oppure prendere un camioncino, comprare un po’ di frutta ai mercati mattutini, portarsi dietro il figlio di 10 anni, già vittima della dispersione scolastica, e cercare di portare a casa quei 50 euro che consentano la sopravvivenza.

IL CASO DEL REDDITO DI CITTADINANZA

Il reddito di cittadinanza, con tutti i suoi limiti e le sue défaillance, faceva fronte alla problematica anche se, in mancanza di controlli adeguati, poteva portare addirittura invece che a una diminuzione a un aumento del sommerso.
Le buone intenzioni di arginare il fenomeno, in assenza di strumenti adeguati di protezione, in particolare per gli extracomunitari senza permesso di soggiorno, sono pii desideri. Pensare di mettere un freno al perverso fenomeno è solo un desiderio utopico. La vera soluzione passa dall’aumento del numero di occupati nelle realtà più povere del Mezzogiorno e delle aree interne del Nord. Che porti il rapporto popolazione occupati a quell’uno a due delle realtà a sviluppo compiuto. In assenza di tale percorso, purtroppo, il fenomeno potrà essere contenuto, forse, certamente non eliminato.


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