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L’Italia è il secondo Paese dell’UE con il tasso più alto di Neet – Not in Education, Employment or Training: 1,7 milioni di giovani “in pausa” tra 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono un percorso formativo da oltre 6 mesi e il nostro Paese rischia di sprecare un miliardo di fondi Ue per il contrasto di un fenomeno che al Sud e tra le donne registra i numeri più allarmanti
Si chiama “Neet”, è un fantasma e si aggira tra noi: “Ma chi è costui “, avrebbe detto Don Abbondio. Vediamo di capirlo. Neet è l’acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training” (non occupato in Formazione, Lavoro o Addestramento). Cioè poltronisti, sia dal punto di vista dello studio che del lavoro? Perditempo, nullafacenti, oziosi? Quelli che il Governo ha definito occupabili e quindi non aventi diritto al reddito di cittadinanza? Nemmeno disoccupati! Perché per essere tali bisogna essere inseriti nell’aggregato della forza lavoro, e per questo è necessario condurre una ricerca attiva, presentare curricula in giro, pubblicare annunci di lavoro.
Sono fantasmi che non sono nemmeno censiti nel mercato del lavoro. Sono prevalentemente nella fascia di popolazione di età compresa tra i 20 e i 30 anni ed è una condizione che è molto diffusa prevalentemente nel Sud del Paese, come è logico, vista la mancanza di opportunità per i giovani. Ma il tema dei Neet, come quello del lavoro delle donne, va inquadrato nel tema generale della mancanza di domanda di lavoro. E visto che è un fenomeno che riguarda prevalentemente il Sud e i suoi giovani, il dato di partenza è quello relativo al rapporto popolazione occupati esistente in tale area, che fa capire quali sono le esigenze di domanda di lavoro esistenti. Con venti milioni di abitanti e sei milioni trecentomila occupati, compresi i sommersi, e una esigenza di oltre tre milioni di saldo occupazionale di posti di lavoro, per ottenere quel rapporto fisiologico delle realtà a sviluppo compiuto, è naturale che moltissimi ragazzi, che devono entrare nel mondo del lavoro, sfibrati da una ricerca inutile che somiglia a quella di un cacciatore che partecipa a una battuta in un bosco nel quale uccelli non ve ne sono, si scoraggino. Infatti come il cacciatore, non può che tornare con il carniere vuoto. Così spesso ragazzi, che hanno inviato curricula senza mai avere una risposta, andranno ad ingrossare le fila dei lavoratori scoraggiati. Infatti molti smettono di cercare una occupazione per stanchezza e si arriva al paradosso che, in presenza di disoccupati reali di lungo periodo come sono i NEET, il dato statistico del tasso di disoccupazione non sia più affidabile, evidenziando l’esigenza di essere molto cauti quando si commentano dati.
La conclusione è che la maggior parte dei NEET, per lo meno al Sud, non siano giovani sfaticati da mandare “ai lavori forzati”, ma professionalità, spesso di livello, che non hanno voglia di lasciare la propria terra, per molteplici motivi, tra i quali la convinzione che fuggire da casa , spesso, vuol dire peggiorare la qualità della propria vita. Perché, a fronte di un lavoro e una remunerazione anche elevata, vi è la mancanza della rete dei rapporti familiari che aiuta a crescere i figli, l’esigenza di pagare l’affitto che magari non si ha nel proprio territorio, i costi dei trasporti per tornare a casa, per citarne solo alcuni. E la convinzione che resistendo prima o poi un lavoro lo si trova pure a casa propria, a parte forme precarie, che periodicamente aiutano. Ed allora il tema di fondo, al di là dell’opportuno utilizzo delle risorse degli interventi comunitari, che non vanno assolutamente perse, è che bisogna affrontare il toro per le corna e andare alla testa dell’acqua dei problemi, cioè la mancanza di opportunità di lavoro, per dirla tecnicamente di domanda di lavoro da parte delle imprese, adeguate alle professionalità esistenti.
Perché il mondo del lavoro è molto segmentato e si poteva mandare un ingegnere a raccogliere uva nella Cina di Mao, quando gli studenti venivano obbligati a lavorare nei campi, certamente non nell’Italia del 2000. E probabilmente gli interventi necessari nelle due Italie che conosciamo, Centro- Nord e Sud-Isole, sono totalmente diversi. Nell’una Parte vi è l’esigenza di far incontrare la domanda con l’offerta di lavoro, di adeguare le professionalità esistenti alle ricerche aziendali, che spesso non sono coerenti e in quel caso possono servire corsi di formazione e opportune azioni di collegamento tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nel Mezzogiorno il tema è invece sempre quello di aumentare la domanda di lavoro, di attrarre le multinazionali, di moltiplicare l’offerta turistica, di potenziare la logistica, da anni abbandonata a favore di Genova e Trieste. Vedrete che se questo avverrà, come per incanto, sia i NEET diminuiranno miracolosamente, sia crescerà l’occupazione dell’universo femminile. Al di là dello spreco dei Fondi Comunitari, dei quali non si deve perdere nemmeno un centesimo, la défaillance che grida vendetta è quella di un capitale umano, più o meno formato, che se impiegato potrebbe produrre Pil, incrementare i consumi, far crescere reddito e ricchezza del Paese e farlo competere ad armi pari con i cugini inglesi, tedeschi, francesi e spagnoli e che rimane ai blocchi di partenza, in attesa di uno start che chissà se e quando mai avverrà. Come dice il Sommo Poeta, “qui si parrà la tua nobilitate”.
Questa è la vera sfida che il Paese dovrà affrontare, altro che le ridicoli, provinciali, azioni per tenersi con l’autonomia differenziata alcuni “sghei” in più. Miserie leghiste diventate obiettivi contraddittori di una maggioranza granitica che, in un gioco delle bandierine, farà spaccare il Paese impoverendo tutti. Un gioco in cui tutti perderanno.
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