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Orfani speciali, l’elenco continua a crescere, per loro, soli dopo un femminicidio o che hanno perso un genitore vittima di un coniuge violento; in Italia c’è una legge, ad oggi l’unica in Europa
C’è Valentina che ha scoperto tutto guardando un Tg, Marta che dopo dieci mesi non può neanche rientrare nel suo appartamento, sequestrato per le indagini, Giuseppe che è tornato dalla palestra e davanti casa ha trovato polizia e carabinieri, poi Vanessa, Erika, Giulia, Francesco, Mario, Serena. Sono tantissimi in Italia, così tanti che nessuno ancora è riuscito a contarli, da qualche anno si definiscono “orfani speciali”. Sono tutti quelli, piccoli ma non solo, che hanno perso un genitore – quasi sempre la madre – vittima di un coniuge violento, un compagno geloso, uno stalker.
In molti casi l’assassino è finito in prigione, altre volte si è tolto la vita, ogni tanto è riuscito a scappare, ma c’è anche chi ha scontato la pena e sta fuori. L’elenco degli orfani continua a crescere. Per loro è stata fatta una legge, a tutt’oggi l’unica in Europa. Ed è la stessa che li definisce proprio così, “orfani speciali”, anche perché “orfani di femminicidio” non era esatto, e anche “orfani di crimini domestici” rischiava di tagliar fuori qualcuno.
ORFANI SPECIALI: IN TANTI RIMASTI SOLI DOPO UN FEMMINICIDIO MA NON ESISTE UN CENSIMENTO GENERALE
Sono tanti. Non esiste a tutt’oggi un censimento generale, in Italia, degli orfani speciali. Il numero più attendibile è quello dei femminicidi, aggiornato in continuazione dal Viminale: sono stati 118 nel 2013 e una cinquantina nel primo semestre 2024, per la maggior parte commessi in ambito famigliare. Un femminicidio ogni tre giorni o quasi. In sostanza: alle volte i figli non ci sono, alle volte ce n’è più d’uno, ma è un altro dato a farci rabbrividire, quello cioè che tra gli orfani speciali oltre un terzo, precisamente il 36 percento, ha assistito al delitto e alla morte della madre.
Traumi che si accumulano, alle volte succede tutto in poche ore: un bambino che è già in partenza vittima, spesso, di una situazione persecutoria, fatta di litigi, violenza, recriminazione, pianti e soprusi, vede morire la sua mamma per mano del padre, o di una persona che è di casa; se tutto va bene arriva la polizia, arresta il colpevole, i piccoli lasciano una casa che forse non ritroveranno mai più, la loro prossima vita si costruisce sulle ceneri di un’esplosione atomica.
Le associazioni che si occupano dell’argomento sono numerose, e tutte concordano almeno su tre cose: la prima è che la legge sul femminicidio del 2013 e quella del 2019 sul codice rosso sono strumenti efficaci e hanno dato una spinta positiva alla situazione; la seconda è che l’intervento, ogni intervento, dev’essere rapido, rapidissimo e mirato; la terza è la necessità di prevenzione e soprattutto di una cultura della prevenzione.
Una recente audizione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio ha radunato il mese scorso quella parte del mondo civile che si occupa in modo specifico degli orfani speciali.
LA STORIA DI GIUSEPPE DELMONTE
Il primo a intervenire è stato Giuseppe Delmonte. Quello stesso Giuseppe che un giorno tornava dalla palestra e ha scoperto che il padre aveva fatto a pezzi sua madre con un’accetta. Era il 1997, ad Albizzate, vicino a Varese: dopo anni di violenze e soprusi la signora Olga Granà era riuscita a separarsi da Salvatore, l’uomo che aveva condannato lei e i suoi figli a una vita fatta di botte e lividi, silenzio e inquietudine. Quel giorno Olga era andata all’ufficio postale da sola, per ritirare dei soldi che lui gli aveva detto essere disponibili. Ma era una trappola: Salvatore l’aspettava lì fuori, pronto a ucciderla con sette colpi d’ascia, per poi scappare e nascondersi in Sicilia.
“Mio padre sarebbe stato catturato dopo qualche giorno”, racconta Giuseppe, che aggiunge sempre, nella sua narrazione del “dopo”, un dettaglio che dettaglio non è: “Dal primo giorno di prigione lui, come detenuto, ha avuto assistenza psicologica, quotidiana e gratuita. Io lo psicologo l’ho visto per la prima volta solo anni dopo, e solo quando ho potuto permettermi di pagarlo”. Oggi Giuseppe Delmonte è presidente di una Onlus, chiamata Olga, come sua madre, che si batte proprio per gli orfani come lui, con un prezioso lavoro di ricerca e interlocuzione con il mondo politico e le istituzioni. Ma, racconta, gli ci sono voluti anni anche solo per riuscire a raccontarla a qualcuno, la sua storia.
SE GLI ORFANI SPECIALI SONO BAMBINI LA TEMPESTIVITA’ E’ FONDAMENTALE
Aveva 19 anni, Giuseppe, quando la sua mamma è stata ammazzata. Se gli orfani sono bambini, la tempestività diventa un elemento chiave dell’intervento, per tutte le diverse professionalità che si troveranno a convergere sulla situazione. A partire da chi arriva primo, cioè auspicabilmente le forze dell’ordine: devono proteggere i piccoli, ma saranno anche, spesso, i primi ad ascoltarli, aiutarli, parlarci. E poi assistenti sociali, medici, psicologi, e ancora giudici e avvocati. E ancora parenti e amici, famiglie di affido, insegnanti e scuole, datori di lavoro, colleghi. Nel corso dell’audizione si rammenta spesso che, a parte l’intervento immediato, si dimostra sempre più essenziale una continuità e un protrarsi delle attenzioni da parte di Stato e amministrazioni.
Serve un modello d’intervento, prima di tutto: è quello disegnato da “Con i bambini”, impresa sociale che ha messo a punto l’iniziativa “A braccia aperte”, per progettare le modalità di sostegno agli orfani speciali. Simona Rotondi, vice coordinatrice dalle attività istituzionali di quest’impresa, nell’arco dell’audizione ha rammentato, fra l’altro, quanto situazioni del genere richiedano di volta in volta un intervento specifico, a partire dall’età dell’orfano: “Un conto è prendere in carico un bambino di tre anni, altro conto sostenere un adolescente di quindici, o un ragazzo di vent’anni che deve entrare nel mondo del lavoro”.
E non conta solo l’età: un crimine domestico genera un mondo vastissimo di storie e persone: alle volte neanche la stretta nozione di femminicidio è sufficiente a sostenere le vittime.
LA SIGNORA BEATRICE E I SUOI ORFANI SPECIALI
La signora Beatrice, di Bari, si occupa di tre orfani speciali, che sono i suoi nipoti: nel loro caso fu la madre, nel 2019, a uccidere il padre dei suoi figli, con una coltellata durante una lite violenta. Tecnicamente, quindi, non un femminicidio, quella volta è morto un uomo. “Non giustificherò mai l’azione di mia figlia – racconta Beatrice che però dà anche la sua versione dei fatti – È stata sempre massacrata di botte. Sette mesi prima di quel giorno lui l’aveva lasciata per terra quasi morta. Non ha mai voluto denunciarlo”. E da quel giorno è la nonna a prendersi cura dei tre figli.
C’è chi a Bari aiuta nonna Beatrice e gli altri, comunque. Perché il Sud, a quanto pare, si occupa dei suoi orfani speciali meglio di quanto avviene nel resto d’Italia.
IL PROGETTO “RESPIRO”
È proprio “Con i bambini”, che nel Mezzogiorno promuove il progetto “Respiro” (Rete di Sostegno per Percorsi di Inclusione e Resilienza con gli orfani speciali”), ad averlo reso noto qualche anno fa: la percentuale dei bambini e ragazzi seguiti e presi in carico è maggiore al Sud e nelle Isole che al Centro e al Nord. Il presidente dell’associazione, Marco Rossi Doria, intervenuto a sua volta nell’incontro con la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, ha rammentato lo spirito del lavoro della sua e di altre Onlus: “Siamo a parlare di come allestire, in continuità nel tempo, qualcosa che tutti vorremmo s’interrompesse adesso”.
IL CASO DI VANESSA MELE
Bambini e adulti. La vicinanza all’orfano dev’essere continua e protrarsi negli anni: “È un lutto che non si supera mai”, ricorda sempre Rossi Doria. C’è anche chi sarà costretto, da grande, a riaffrontare nel concreto lo stesso genitore che aveva commesso il crimine. È il caso ad esempio di Vanessa Mele, che oggi è cresciuta, vive in Inghilterra dove fa l’avvocata, ma nel 1998 aveva sei anni e abitava a Nuoro, quando il padre uccise sua madre con un colpo di pistola. L’uomo fu condannato con rito abbreviato a 14 anni e mezzo di carcere, ma otto anni più tardi, tornato in libertà in anticipo, fece istanza per ottenere la pensione di reversibilità dell’ex moglie uccisa e che gli fu concessa.
Fu proprio Vanessa a opporsi, denunciando l’assurdità del fatto. A tempo di record fu scritta e approvata una legge. La stessa che, dal 2010, nega a chi ha commesso a un crimine in famiglia di beneficiare delle pensioni di reversibilità delle vittime. Incredibile ma vero, prima questa regola non c’era. Vanessa è istruita e battagliera, e il suo caso ha fatto scalpore, all’epoca: lei è riuscita a difendersi, anche coinvolgendo tv, giornali, e il mondo politico. Ma purtroppo tanti di questi orfani speciali sono più deboli, molto più deboli, e per essere difeso hanno bisogno di tanti alleati, anche quando diventano grandi.
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