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Salute Mentale la denuncia di Cancrini: «Oggi le condizioni dell’assistenza psichiatrica, insufficienti e da cambiare, sono oggetto di un interesse molto sporadico, legato ai casi di cronaca e non a una valutazione seria»


Poche persone come il professor Luigi Cancrini, psichiatra e psicoterapeuta, rappresentano l’evoluzione dell’approccio alla salute mentale in Italia dagli anni ’70 a oggi. Ha affrontato il disagio psichico in contesti come il territorio, la scuola e il carcere. All’impegno professionale ha unito una forte coscienza civile e politica, che lo ha portato a impegnarsi per far approvare dal Parlamento italiano, nel quale è stato eletto deputato in passato, la legge Basaglia che ha portato alla chiusura dei manicomi. Con lui, partendo dai recenti casi di cronaca violenta, abbiamo esplorato i limiti del sistema di salute mentale in Italia.

Professore, rimaniamo esterrefatti ogni volta che tanta violenza in un essere umano solleva il problema della salute mentale. L’impressione è che accada perché si parla di questo argomento soltanto dinanzi a fatti gravi, poi sparisce dall’orizzonte. Non sembra esserci abbastanza attenzione sulla salute mentale.

Sì, diciamo che in questo periodo storico è così. C’è stato un tempo, intorno agli anni ’70, in cui invece il discorso sulla salute mentale era un argomento di grande interesse per tutti, anche per le inchieste giornalistiche, ricordo quelle di Zavoli in particolare. L’idea della necessità di aiutare i pazienti psichiatrici superando la segregazione custodialistica dell’ospedale diventò un fatto di grande interesse comune. Con il passare del tempo questi temi sono stati messi in secondo piano. Diciamo che oggi è tristemente vero che le condizioni dell’assistenza psichiatrica, tuttora gravemente insufficienti e da cambiare, sono oggetto di un interesse molto sporadico, legato appunto ai casi di cronaca e non a una valutazione seria di come stanno le cose.

Lei ha definito i protagonisti di questi episodi, i più giovani in particolare, come “fortezze vuote”. Come facciamo a non accorgerci che nostro figlio presenta comportamenti a rischio? Oppure come facciamo a non accorgerci che nostra figlia o la nostra compagna è incinta? Loro sono fortezze vuote, ma non sarà che noi non siamo fortezze piene?

Credo che sia molto importante però fare una distinzione. La grandissima parte dei comportamenti violenti sono legati a dei disturbi di personalità e in genere, quando questi comportamenti violenti si presentano, la persona aveva già dato evidenti segni di disadattamento. Il disturbo di personalità si definisce proprio come il disturbo delle persone che hanno difficoltà a rapportarsi con gli altri e alla fine anche con se stessi. Ci sono invece particolari casi di cronaca, ad esempio l’omicidio di Giulia Cecchettin da parte di Filippo Turetta, o il familicidio di Paderno Dugnano da parte di un diciassettenne, che hanno una caratteristica un po’ diversa.
Nel senso che in questi casi siamo in un altro capitolo della psicopatologia ed è il capitolo dei disturbi più psicotici. La psicosi ha di abbastanza caratteristico che la personalità psicotica viene nascosta in qualche modo dall’organizzazione di personalità precedente agli episodi acuti. Sono capitoli di patologia molto diversi.
Il primo, più frequente, quello dei comportamenti violenti e degli altri disturbi di personalità, è un tipo di comportamento e un tipo di situazione in cui abbiamo più strumenti per intervenire prima e dobbiamo in qualche modo per renderci conto, purtroppo dopo, del fatto che abbiamo sottovalutato i segni precedenti. Nel secondo caso, invece ci troviamo di fronte a delle esplosioni improvvise, ma secondo me importante è comunque sottolineare che questo secondo caso è molto più raro, è molto meno comune negli episodi di violenza di cui sentiamo parlare quasi ogni giorno, con la perdita improvvisa e senza segnali precedenti chiari della capacità d’intendere e di volere e la perdita del principio di realtà. Sono più difficili da prevedere, però non molto frequenti.

Casi di femminicidio, di violenza domestica, ma anche appunto le vicende che Lei ha ricordato, spesso rivelano una storia lunga di disagio mentale o mai trattato o mal trattato. Cosa manca secondo lei nel dialogo tra psichiatria, giustizia e servizi sociali per poter intervenire se non addirittura prevenire queste tragedie?

Quello che manca secondo me è una cultura psicoterapeutica, nei servizi e anche purtroppo nei servizi psichiatrici. Io ho diretto per quasi vent’anni il “Centro di aiuto al bambino maltrattato e alla famiglia” e mi sono incontrato, insieme alle persone che collaborano con me, con situazioni estreme come l’abuso sui minori, la violenza su di loro e le terribili conseguenze che ne derivano.
Quello che noi abbiamo visto è che lavorando con un atteggiamento e una cultura psicoterapeutica a favore di questi bambini, e quando possibile delle loro famiglie, si è evitato lo sviluppo di quei disturbi di personalità che poi sono fondamentali nel determinarsi di situazioni di violenza successiva. In generale, i bambini che vivono in situazioni di violenza e di abuso sono bambini che se non curati adeguatamente nel tempo della loro infanzia o della loro preadolescenza, se non curati precocemente in quel tempo lì, sviluppano disturbi di personalità e in qualche modo ripetono nella loro vita adulta quei comportamenti violenti di cui sono stati vittime da piccoli.
Stiamo portando avanti adesso una ricerca su come sono andate le cose per quei bambini che avevamo curato allora con la psicoterapia, insieme alle loro famiglie naturali o in alcuni casi adottive, e ci siamo trovati di fronte al fatto che ben curati nell’infanzia, cioè nel tempo in cui i maltrattamenti si sono manifestati, questi bambini non sviluppano dopo l’adolescenza, nell’età adulta, disturbi della personalità e non sviluppano quindi nemmeno quei comportamenti aggressivi, violenti con cui in qualche modo si vendicano, in modo del tutto inconscio, di ciò che hanno subìto.
Questo per ciò che riguarda i disturbi più comuni, le violenze più comuni, i nove decimi più o meno di violenza che poi arrivano sui giornali o in televisione. L’altro caso è invece quello delle psicosi, che hanno origine molto più lontana nei primi anni di vita. Lì sarebbe necessaria la capacità di assistere i genitori e le famiglie nei primi anni di vita del bambino, aiutarli ad affrontare quelle che sono all’inizio piccole difficoltà e che poi in qualche modo si “incistano” dentro al ragazzo o la ragazza, che cresce sviluppando una crosta di normalità. La fortezza vuota è piuttosto questa, quella di questi bambini che portano dentro di sé i segni di una ferita lontana, che corrisponde nell’età adulta allo sviluppo di un disturbo psicotico.
Per tutti gli altri, i nove decimi, quindi tanti di più, quello che si potrebbe fare è intervenire in modo psicoterapeutico nei disturbi che i bambini già manifestano da piccoli. In questo senso oggi ci troviamo di fronte a una situazione in cui è sempre più possibile farlo: le comunità di accoglienza, le comunità terapeutiche per bambini che si trovano in situazioni di difficoltà con le loro famiglie esistono, in molte di loro già si lavora con una prospettiva psicoterapeutica. Con questi bambini si possono prevenire quei disturbi di cui parlavamo prima.
Per quelli in cui le situazioni di maltrattamento e di sofferenza del bambino sono meno gravi, ciò che sarebbe importante da parte dei servizi è la capacità di intervenire, ma non solo sul piano normativo e giuridico. Non si tratta solo di denunciare al Tribunale dei Minori eventuali prepotenze o gravi errori educativi da parte dei genitori, si tratta di offrire a genitori e figli un sostegno, un aiuto psicoterapeutico. Questo è ciò che manca nella prevenzione.

Quindi da una parte ci sono carenze strutturali dovute anche ai continui tagli ai servizi socio-sanitari, ma Lei punta più l’attenzione sulla qualità dell’intervento.

Sì, ma sono comunque due cose collegate. Nel senso che la mancanza di cultura psicoterapeutica è molto più forte nei servizi deboli, quelli in cui poche persone sono costrette ad occuparsi di molte situazioni. La cultura psicoterapeutica per diffondersi ha bisogno di essere raccontata, insegnata. Ma c’è bisogno anche di servizi a misura di quelle che sono le esigenze. I servizi sociali italiani sono tendenzialmente molto sottodimensionati. Faccio un esempio: una sola circoscrizione di Barcellona ha un numero di assistenti sociali che è pari a quello dell’intera città di Roma. Anche a Barcellona però, dove il numero è sufficiente, quello che può mancare è la cultura psicoterapeutica, che rende questo numero sufficiente, adeguato a fronteggiare sul serio in modo costruttivo e definitivo le conseguenze di quello che accade.

Lei parla di servizi sul territorio. C’è questo luogo comune di dare molto spesso la colpa alla legge Basaglia, che però prevedeva esattamente il decentramento sul territorio con l’apertura di nuovi servizi.

Sì, questa è una grande sciocchezza. I servizi sono enormemente aumentati di numero. Solo a Roma, prima della legge Basaglia, c’era un solo centro di salute mentale che riguardava più di quattro milioni di abitanti. Già a pochi anni dalla legge Basaglia il numero dei servizi era cresciuto a 54. C’è stata una grande risposta organizzativa da parte della regione, agli inizi. Ma questo vale un po’ per tutte le situazioni italiane. Tutta la sofferenza che un tempo veniva rinchiusa nell’ospedale, in qualche modo deve essere affrontata sul territorio.
Affrontarla sul territorio richiede i servizi, gli operatori in numero sufficiente, insieme però a una cultura psicoterapeutica di tutti gli operatori. Su questo c’è stata grande lentezza di applicazione, di adeguamento delle strutture alle esigenze delle persone. Negli anni successivi alla legge Basaglia, noi abbiamo fatto, alla facoltà di psicologia dove insegnavo, delle tesi studiando il numero di episodi violenti accaduti nelle famiglie italiane, il tipo di incidenti di cui si parla tanto oggi attraverso le pagine dei giornali. Potemmo dimostrare con chiarezza che dopo quella legge e la chiusura dei manicomi non c’era stato alcun aumento di questi episodi. Tutti quelli che parlano della legge Basaglia senza conoscere gli effetti che ha avuto, purtroppo fanno o demagogia, nel caso dei politici, o dimostrazione di ignoranza.

Veniamo dalla pandemia da Covid e dal periodo di lockdown che ne è conseguito. Lei pensa che questi fattori abbiano esacerbato le difficoltà di tenuta nervosa delle persone, sia individualmente che collettivamente?

Quello che io posso osservare, in una professione che è durata per tanti anni prima del covid e anche dopo, che non mi sembra di registrare un aumento significativo dei problemi di salute mentale. Quello che si è verificato sotto pandemia è un insieme di situazioni contingenti difficili, un disagio, la diffusione di un disagio. Però, vede, il disagio è una cosa che una persona normale sperimenta quando è messa in condizione di difficoltà, la patologia mentale è un’altra cosa.

Da un lato abbiamo detto che ci sono persone che ignorano i propri disturbi, dall’altra però c’è un aumento di diagnosi psichiatriche anche su casi meno gravi. Lei crede che ci sia una sovra medicalizzazione che impedisce poi di sviluppare quella cultura psicoterapeutica di cui parlava?

Sicuramente sì. Nel senso che la diffusione degli psicofarmaci e gli enormi interessi delle case farmaceutiche che ci sono alle spalle hanno profondamente influenzato l’attività e la formazione degli psichiatri. Molto spesso si confonde, usando farmaci, il disturbo d’ansia o il disturbo di depressione. Si confonde perché basterebbe ascoltarli quei pazienti per un po’ di tempo, come accade però per fortuna sempre di più, perché poi gli psicoterapeuti sono sempre di più, le scuole di psicologia aumentano. La risposta psicologica e psicoterapeutica è sicuramente più valida di quella farmacologica nei piccoli disturbi psichiatrici.
Nei centri di salute mentale, quindi nella psichiatria pubblica, lentamente succede che ci si occupi solo dei casi gravi, mentre i casi meno gravi vanno su un mercato completamente diverso. Per esempio, oggi, quello delle piattaforme che mettono in collegamento con psicoterapeuti, che offrono psicoterapie a costi molto contenuti. Sono ormai decine di migliaia, forse qualche centinaio di migliaia, le persone che sono in cura in questo modo, anche online. I piccoli disturbi psichiatrici, la depressione, le ansie minori, che si possono e si devono trattare con l’ascolto terapeutico, vengono purtroppo talvolta addirittura aggravati dall’intervento farmacologico.
La mia esperienza e quello che mi succede spesso, è di trovarmi di fronte a persone che hanno cominciato a prendere degli antidepressivi, somministrati senza una grande attenzione alle difficoltà che loro stanno vivendo, e che hanno difficoltà a smettere, perché smettere un antidepressivo, quando lo si è usato per qualche anno, provoca evidenti disturbi di astinenza. In questa prepotenza dell’uso di farmaci, la prepotenza dell’industria farmaceutica e della sua capacità di influenzare le attività degli psichiatri e anche dei medici, c’è un danno per la salute mentale.

Ha accennato alle piattaforme online. Un po’ in controtendenza con le interpretazioni correnti, Lei non sembra demonizzare la cultura digitale, l’uso dei social media che viene associato spesso ai giovani come fonte di ogni male.

La cultura digitale è una cultura che in molte cose della vita ci aiuta. Nel caso specifico, se uno studente che va a fare un periodo di studio all’estero e si trova in una difficoltà emozionale importante, vive uno stato di ansia e di depressione e ha difficoltà a rivolgersi a terapeuti locali perché c’è un problema di lingua, ecco, il fatto che ci siano delle piattaforme attraverso cui ormai si è in contatto con un terapeuta italiano è di grande aiuto. Così come è un grande aiuto per noi trovare un libro tramite Amazon. Quindi questo è l’aspetto positivo.
Dell’aspetto negativo dei social hanno parlato in tanti e non mi dilungo io. Ma certamente il modo in cui incide sulla cultura giovanile spesso è problematico e dannoso, non utile e costruttivo. Però la possibilità di utilizzare internet per dare risposte adeguate ai propri malesseri fisici e psichici, per sapere a chi rivolgersi, per affrontare con consapevolezza i problemi che vengono dal proprio corpo o dalla propria psiche, mi sembra che sia comunque un grande progresso.

Lei ha ricordato il grande dibattito sulla salute mentale intorno agli anni ’70. All’epoca era responsabile per il Partito Comunista Italiano delle politiche sulla psichiatria.

La cosa più importante che riuscimmo a fare fu quella di far arrivare in parlamento la legge Basaglia e di approvarla. È la legge con cui i disturbi psichici sono rientrati nella sanità. Prima erano assistenzialismo, affidati alla provincia, insieme agli orfani, ed era la visione custodialistica. Si trattava di tenere in vita, senza che facessero danno, le persone “strane” che non funzionavano. L’idea che potessero essere curate rappresenta un grandissimo progresso. In quel tempo lì, accanto a questa legge, c’è anche quella che riguarda i tossicodipendenti, perché nel ’75, e io allora lavoravo col Partito Comunista, abbiamo sostenuto molto la legge sulle tossicodipendenze che affermava il diritto alla cura delle persone con problemi di dipendenza.
Anche quella ha cambiato completamente il quadro della situazione, perché in precedenza la tossicodipendenza era considerata un comportamento criminale, era oggetto di giustizia penale, non di assistenza e di cura. Una iniziativa a cui il Partito Comunista diede un grande impulso, all’interno di quello che in modo sommario viene definito compromesso storico. Certamente in quel periodo su queste leggi c’è una convergenza di posizioni tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, molto mediato dalle azioni di Moro e Berlinguer, una cosa veramente importante.

Concludendo, cosa possiamo fare individualmente, nella nostra vita di relazioni sociali, per percepire che qualcosa non va nelle persone a noi più vicine?

Nella grandissima parte dei casi anche di violenza, la possibilità di accorgersene prima c’è e riguarda tutti i casi associati a disturbi di personalità. Nel caso dei disturbi psicotici è molto più difficile. Sarebbe importante che ci fosse una capacità di prevenzione dei servizi che si occupano di neuropsichiatria infantile. Ma anche lì la cultura psicoterapeutica è debole, dobbiamo farla crescere. Nei programmi televisivi non se ne parla mai. Esistono dei divulgatori, Recalcati o Crepet, ma sono divulgatori a cui piace parlare più dal punto di vista culturale che dal punto di vista concreto della prevenzione. La prevenzione richiede impegno e modificazione profonda nell’assetto organizzativo e culturale dei servizi dedicati.


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