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Separazione delle carriere: si riaccendono i riflettori su un tema importante che la magistratura ha snobbato; una riforma per iniziare


Di separazione delle carriere si parla oramai quotidianamente. Questo fatto, da solo, vale la fatica di aver raccolto 72.000 firme sul progetto di legge costituzionale di Unione Camere Penali Italiane e così riacceso i riflettori su un tema che la magistratura italiana ha ora snobbato come irrilevante, ora liquidato come roba buona per le ortiche.

Che non fosse né l’uno né l’altra lo attesta con bastevole esattezza il modo stesso delle interlocuzioni odierne dei magistrati. Al primo baluginare di concretezza della riforma, abbandonato l’antico paternalismo, hanno imbracciato toni muscolari, persino nel confronto con l’avvocatura, in fondo anch’essi giuristi con cui si condividono quotidiane sorti di lavoro.
Poco male: il confronto è proficuo se cammina sui binari di una onesta tensione dialettica, la cui assenza ne certificherebbe anzi la vacuità.
Epperò il confronto – aspro quanto si vuole – merita contenuti.

Falliti allora i rimbrotti sulla comune cultura della giurisdizione (‘vuota metafisica dell’intelletto’ per un Nordio d’annata non ancora Ministro); rintuzzati i salmi sui rischi di sottoposizione del PM all’esecutivo (del tutto ignoti al DDL); evaporate le elucubrazioni su attentati all’autonomia del giudice (invece affrancato dalla liaison dangereuse con una parte), fa capolino una nuova solfa: la riforma non risolverà tutti i problemi della giustizia. Verità eccentrica (nessuno ha mai declinato taumaturgie) buttata sul tavolo a dissimulare che ne risolverà almeno uno, nient’affatto secondario: la asimmetria strutturale dei rapporti tra il giudice e le parti, che azzoppa vistosamente il processo accusatorio impedendogli di decollare. Dopo 30 anni, non si scorge ragione; sarà che non ve ne sono?

*presidente della Camera Penale di Roma

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