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Il cambiamento dell’impianto residenziale e lavorativo avvenuto negli ultimi venti anni impone una rilettura dei parametri classici: serve un Piano di servizi e non dei trasporti


Dobbiamo abituarci, e non sarà facile, al concetto nuovo di città, al concetto di luogo legato alle attività residenziali, lavorative e del tempo libero in modo completamente diverso. È ormai quasi naturale conoscere gente nata ad Afragola che vive a Napoli e che lavora a Roma. O gente che è nata a Lecce, vive in un comune del Salento e lavora in un Comune nei pressi di Bari. O gente nata a Cesena che vive a Bologna e lavora a Reggio Emilia. Cioè sono venuti meno i riferimenti classici che identificavano la nascita, la vita ed il lavoro in un unico ambito urbano. Senza dubbio con le modalità di trasporto degli anni 2000, cioè con il ricorso all’alta velocità ferroviaria, è crollata la dimensione della distanza ed è cresciuta, come importanza, la dimensione del fattore tempo.

Proprio pochi giorni fa mi sono soffermato su un tema che, in un certo senso, mette in crisi una serie di convincimenti della mia generazione. Sì la generazione che ha ritenuto fondamentale realizzare una offerta ferroviaria ad alta velocità. Mette in crisi cioè la preferenza nei collegamenti tra le grandi realtà urbane e metropolitane. In realtà i nuovi 1.000 chilometri di alta velocità ferroviaria rispondono alle esigenze di circa 14 milioni di cittadini, quasi un quarto della intera popolazione. Ed invece, abbiamo sottovalutato un’altra offerta ferroviaria e stradale legata al pendolarismo.
È di questi giorni la notizia che le Ferrovie dello Stato acquisteranno 1000 nuovi treni regionali per un valore di circa 7 miliardi di euro. E rafforzeranno, in tal modo, la capillarità del servizi che già oggi offrono 6.000 corse al giorno e trasportano oltre 400 milioni di passeggeri all’anno. L’incremento ed il rinnovo di circa l’80% dell’intero attuale parco è finalizzato proprio alla reinvenzione della offerta pendolare.

In realtà il cambiamento dell’impianto residenziale e lavorativo avvenuto, ripeto, negli ultimi venti anni, impone una rilettura dei parametri classici che caratterizzano, da sempre, quello che chiamiamo, sbagliando, “trasporto pubblico locale”. Un trasporto che di “locale” non ha più nulla soprattutto come rilevanza strategica.
Ed allora primo atto da compiere dovrebbe essere la rivisitazione sostanziale del contributo pubblico su tale filone di attività. In realtà lo Stato dovrebbe passare dai 5 – 6 miliardi di euro all’anno di ripiano dei disavanzi delle Società preposte alla offerta di trasporto pubblico locale ad almeno 10 – 12 miliardi di euro, praticamente il doppio. Una simile scelta porterebbe, automaticamente, ad una crescita sostanziale dell’attuale domanda di trasporto. E crollerebbero automaticamente tre indicatori che incidono, in modo sostanziale, sull’intero assetto economico del Paese e che sono relativi a:

  • Un abbattimento di oltre il 40% di CO2
  • Un abbattimento delle spese sostenute dalle famiglie per il trasporto; oggi tale spesa supera i 38 miliardi di euro all’anno
  • Un abbattimento sostanziale della incidentalità (oltre il 55% avviene in ambiti urbani o nei collegamenti tra realtà urbane vicine)

Ma mentre per la mobilità delle persone è forse possibile identificare dei rimedi, delle soluzioni, cioè è possibile costruire dei master plan capaci di affrontare e superare sostanzialmente la serie di criticità, per la movimentazione delle merci nelle realtà urbane piccole, medie e grandi siamo di fronte a due distinte realtà:

  • Sistemi avanzati in cui sta arrivando o è già arrivata la digitalizzazione della supply chain (cioè l’insieme di processi che sono finalizzati a portare sul mercato un prodotto o servizio, trasferendolo dal fornitore fino al cliente)
  • Sistemi ancora fermi a modalità di trasporto lontani da modelli di ottimizzazione della offerta coerenti con la crescita della domanda di traporto

Tutto questo crea automaticamente aree forti ed aree deboli, aree con forte attrazione commerciale ed aree sempre meno appetibili.

Queste considerazioni penso ci portino ad una conclusione: per un sistema con elevata entropia (caratterizzazione caotica della domanda di mobilità) non ha più senso produrre un Piano dei Trasporti, un Piano della Mobilità. Ma penso sia urgente redigere un Action Plan dei Servizi. Un Action Plan che denunci chiaramente le esigenze di una domanda diffusa di mobilità. Di una domanda spesso illeggibile e, al tempo stesso, identifichi la miriade di risposte. Ma un lavoro del genere penso sia possibile solo analizzando e capendo la reale dimensione dei servizi richiesti. Sia per quanto concerne la mobilità delle persone che delle merci.

A richiedere e a gestire un simile strumento dovrebbe essere la Conferenza Stato Regioni. Perché penso sia fondamentale un confronto organico fra distinte realtà territoriali e, soprattutto, se si dovesse dare vita alla definizione ed alla attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) sarebbe fondamentale che un simile atto programmatico perseguisse proprio la omogeneità dei servizi, in modo particolare tra il Centro Nord ed il Sud del Paese. Una omogeneità che deve trovare come catalizzatori proprio le varie realtà regionali.


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