Gli attori Rocco Fasano e Alice Pagani, a destra il regista Andrea De Sica
5 minuti per la letturaUn viaggio tra la vita e la morte, tra l’adolescenza e l’età adulta, tra passato e presente e nuove consapevolezze. È Non mi uccidere, il film di Andrea De Sica disponibile da questa settimana per l’acquisto e il noleggio digitale sulle principali piattaforme. Mirta (Alice Pagani) ama Robin (Rocco Fasano) alla follia, lui le promette che sarà amore eterno. La voglia di trasgredire costa la vita a entrambi.
Mirta però si risveglia… Non mi uccidere è sorprendente: ti ci avvicini pensando a Twilight e ti ritrovi in qualcosa di molto più profondo, un horror romantico che conferma il talento di De Sica, figlio del compianto compositore Manuel De Sica (fratello di Christian) e della produttrice Tilde Corsi, nonché nipote del grande Vittorio che, purtroppo, non ha mai conosciuto.
Sono già una decina i suoi film, tra corti, documentari, film e la serie Baby, sul mondo delle giovanissime squillo nei quartieri della Roma Bene, successo planetario su Netflix.
De Sica, i suoi film sono viaggi nel profondo della notte e in quella terra di mezzo che è l’adolescenza.
«Sono due mondi paralleli e affascinanti. Sono stato dj e ho lavorato nei club. Da quando avevo 16 anni credo che la notte sia il momento in cui si è esposti ai misteri della vita, ha cose che ci attraggono e ci spaventano allo stesso tempo. È il momento in cui si disvelano certi aspetti più sfumati e oscuri. La discoteca è quasi sempre presente nei miei lavori: è come se cercassi di dare al mezzo cinematografico un’esposizione mentale degli stati d’animo dei personaggi che, in quel luogo, si liberano di sovrastrutture e non hanno bisogno di dialoghi, momenti puramente cinematografici, una sorta di ipnosi. In Non mi uccidere l’alternanza notte-giorno è fortemente simbolica e presente».
Come riesce a raccontare così bene l’adolescenza?
«Mi piace scovare dei ragazzi che mi raccontino la verità che stanno vivendo e che io sto cercando. In questi anni ai casting ho visto migliaia di ragazzi. Con loro riesco a stabilire un rapporto alla pari: non sono solo attori che lavorano per me, spesso nascono amicizie, è come se fossimo una tribù. Il dialogo che nasce fa sì che riescano a esprimersi in modo più vivido, diretto, verace rispetto a quando un adulto gli impone cosa fare. Sono loro a dire a me cosa devo raccontare e non viceversa».
Che ruolo hanno le musiche nel suo cinema per lei, figlio di compositore?
«Enorme, sono parte della sceneggiatura, anzi sono sceneggiatura stessa. Su questo film ho lavorato con Andrea Farri: volevo trovare il punto di incontro tra la musica elettronica, da cui vengo, e l’orchestra, per rendere il film più epico. Abbiamo preservato anche i suoni più ruvidi dell’orchestra sinfonica ungherese per rendere l’inquietudine, il lato animalesco dei personaggi. Componevo le parti elettroniche, le mandavo a Farri, che le orchestrava e me le rimandava. Lo abbiamo fatto prima di girare, in modo che sul set potessimo ascoltare la musica ed entrare dentro la storia».
Il cinema e la musica che ama?
«Il film è influenzato da Nikita di Luc Besson, è animato da un immaginario anni 90, quello della mia adolescenza. Robin e i suoi amici sono un po’ i Nirvana, la parte di Mirta più oscura evoca invece i Joy Division».
La canzone “The Nightingale” è un omaggio a David Lynch?
«A dieci anni ho deciso che avrei voluto fare il regista guardando Twin Peaks. Lo considero il mio grande maestro. Ho voluto rendergli omaggio, in modo che anche i giovanissimi possano entrare nel suo mondo».
Ad una lettura superficiale si potrebbe pensare a Twilight, ma il suo film è molto diverso.
«Si pone con queste premesse da teen drama, e spero che sorprenda in positivo il pubblico, che viene catapultato in un’esperienza molto più violenta e, forse, più romantica».
In Italia si fa finalmente cinema di genere?
«Negli ultimi dieci anni il genere in Italia si è fatto nuovamente strada. Lavorando con Netflix e Warner Bros. capisci che lo vogliono, ma in modo molto italiano e molto locale: si tratta di non cercare di fare delle copie di quello che si vede fuori. Mainetti e Sollima sono stati bravissimi a resuscitare il genere a modo loro. L’horror è ancora ai margini, spero di essere tra quelli che lo possano rivitalizzare, non possiamo trascurare l’insegnamento di certi maestri come Bava e Argento».
A proposito di maestri, suo padre e suo zio cosa le hanno raccontato di suo nonno Vittorio De Sica.
«Esattamente quello che sapete tutti voi, i racconti della nostra famiglia ormai appartengono all’immaginario collettivo. So che era una persona geniale, di grande sensibilità e umanità, con qualche vizietto, per il gioco, forse per le donne. Che peccato non averlo mai conosciuto, forse avrei scelto di fare comunque un cinema diverso dal suo, mi avrebbe insegnato però molte cose. Ovviamente sono orgoglioso del cognome che porto».
Chiamarsi De Sica aiuta, è un ostacolo o cosa?
«Io ho incontrato produttori e persone che, al di là di tutto, volevano vedere cosa avessi fatto e come. Ho 40 anni e sono ai miei primi film, questo è il secondo lungometraggio. Non mi sento privilegiato, glielo dico francamente. Certo se mio papà, mio zio e mio nonno avessero avuto un forno forse avrei fatto il panettiere. Ho percorso questo mondo perché da tre generazioni ne siamo immersi, non per trovare scorciatoie. A casa mia non si parla d’altro e appassionarmi al cinema è stato inevitabile».
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