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Migranti, il problema in Italia non sembra essere l’eccesso, ma la cattiva gestione. Secondo l’ultimo rapporto Istat, nel nostro Paese vivono 5 milioni e 50mila stranieri regolari


Se tutti gli immigrati in Italia sparissero domattina, la giornata inizierebbe con autobus vuoti, ospedali nel caos e intere filiere industriali bloccate. Eppure, per molti l’unica cosa che conta è il numero degli sbarchi, non quello dei contributi versati o dei posti di lavoro occupati. Strano paese, l’Italia: si lamenta della crisi demografica, ma ignora chi potrebbe aiutarla a risolverla.

Secondo l’ultimo rapporto Istat, in Italia vivono circa 5 milioni e 50mila stranieri regolari, pari all’8,6% della popolazione. A questi si aggiunge un numero stimato di irregolari tra i 400 e i 600mila. La loro distribuzione sul territorio è sbilanciata: la maggior parte si concentra al Nord, dove ci sono più opportunità di lavoro, mentre il Sud, pur avendo bisogno di manodopera, ne attrae meno per la carenza di impieghi regolari.

Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto ospitano da sole quasi la metà della popolazione immigrata in Italia, mentre nel complesso il Nord accoglie il 59% degli stranieri e il Centro-Nord arriva all’83,4%. La provincia con la più alta percentuale di stranieri è Prato (21,5%), seguita da Milano e Roma. Al Sud e nelle Isole, invece, con il 16,6%, la presenza è più frammentata e spesso legata al lavoro stagionale, con una maggiore incidenza del lavoro nero e dello sfruttamento. Il paradosso è evidente: mentre le imprese del Nord si contendono la manodopera straniera, il Sud, che ne avrebbe ugualmente bisogno, è meno attrattivo.

Al di là delle percezioni, il contributo economico dell’immigrazione è un dato di fatto. Secondo l’Osservatorio sugli Stranieri dell’Inps, nel 2023 gli stranieri che versano contributi o ricevono prestazioni rilevati dall’Istituto sono stati 4.384.044, di cui 3.820.718 lavoratori (87,2%), 319.456 pensionati (7,3%) e 243.870 percettori di prestazioni a sostegno del reddito (5,6%). Non solo: il 9% del PIL italiano è generato dal lavoro degli stranieri, con punte molto più alte in settori chiave come logistica, ristorazione e assistenza domestica. Gli immigrati rappresentano oltre il 10% dei lavoratori dipendenti e il 30% degli operai in agricoltura ed edilizia. Eppure, il dibattito politico continua a concentrarsi sugli sbarchi, ignorando che il vero problema non è l’arrivo di nuovi lavoratori, ma la fuga di quelli già presenti. Ogni anno, migliaia di immigrati qualificati lasciano l’Italia per Francia, Germania o Regno Unito, dove trovano stipendi più alti e meno burocrazia.

L’Italia è tra i paesi più vecchi del mondo. L’età media è di 48,4 anni, e il tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa. Senza immigrati, la popolazione in età lavorativa diminuirebbe drasticamente, con effetti disastrosi sul sistema pensionistico. Oggi 1 pensionato su 10 riceve assegni pagati anche grazie ai contributi degli immigrati. Se questi smettessero di versare contributi, il buco dell’Inps diventerebbe insostenibile nel giro di pochi anni.

Gli imprenditori lo sanno bene. Il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, lo ha detto chiaramente: “Senza immigrati, la nostra agricoltura collassa”. Mentre il Nord assorbe e integra (spesso con difficoltà) la manodopera immigrata, il Sud resta intrappolato in un circolo vizioso: meno opportunità di lavoro regolare significano meno immigrati stabilmente occupati, più lavoro nero e più sfruttamento.

I numeri, composti grazie ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Agenzia Italiana governativa per la gioventù parlano chiaro: in Sicilia, gli immigrati sono appena il 3% della popolazione, mentre in Lombardia il 12%. Non perché la Sicilia non abbia bisogno di lavoratori stranieri, ma perché non offre loro condizioni di vita e di lavoro accettabili. In un paese con il 20% di giovani disoccupati al Sud e interi settori che dipendono dalla manodopera straniera, il problema non è la concorrenza per il lavoro, ma la mancanza di una gestione razionale dell’immigrazione.

L’Italia non è sola nella gestione dell’immigrazione, ma sembra affrontarla in modo più caotico rispetto ad altri paesi europei. I dati dell’Europarlamento ci dicono che in Germania, gli immigrati sono 10,9 milioni (il 13% della popolazione), e il dibattito non verte sugli sbarchi, ma sull’integrazione lavorativa. Non a caso, Berlino ha appena varato una riforma per facilitare l’ingresso e la cittadinanza agli stranieri, con percorsi rapidi per chi vuole lavorare nel paese.
Anche la Francia segue un modello più strutturato: con 7 milioni di stranieri (10,3% della popolazione), il paese ha puntato sulla naturalizzazione progressiva e su politiche di formazione e inserimento. Poi c’è la Spagna, che fino agli anni ’90 era un paese di emigrazione. Oggi ospita 6 milioni di immigrati (12,7% della popolazione) e ha regolarizzato migliaia di lavoratori stranieri, riducendo il lavoro nero e migliorando l’integrazione.

Il Patto sulla Migrazione e l’Asilo dell’UE impone una gestione più strutturata dei flussi migratori tra i paesi membri. Tra le novità, l’obbligo per gli Stati di accogliere una quota minima di immigrati o contribuire economicamente al sistema europeo di gestione delle migrazioni. L’Italia, però, resta ferma alla gestione emergenziale: respingimenti, decreti flussi insufficienti, accordi con i paesi di transito. Mentre Germania e Spagna parlano di visti per professionisti e percorsi agevolati, in Italia il dibattito si blocca su slogan e polemiche sterili.

Il problema dell’immigrazione in Italia non è quindi l’eccesso, ma la cattiva gestione. Ogni anno, il paese perde lavoratori stranieri perché non riesce a trattenerli con stipendi adeguati e regole chiare. Ogni anno, migliaia di posti di lavoro restano scoperti perché non ci sono abbastanza persone disposte a svolgerli. Il punto non è più se l’Italia abbia bisogno di immigrati. Il punto è come sceglie di gestire un fenomeno che, piaccia o no, è già una realtà. Gli imprenditori l’hanno capito. L’Inps l’ha capito. L’Europa l’ha capito. Resta da vedere quando lo capirà anche la politica.

L’Italia si trova di fronte a un bivio che non è solo economico, ma anche culturale. Mentre altri paesi europei riconoscono il ruolo centrale degli immigrati nella loro economia e ne facilitano l’inserimento, in Italia il dibattito resta bloccato tra allarmismi e retorica emergenziale. Si continua a parlare di sicurezza e confini, ma quasi mai di formazione, integrazione e partecipazione sociale.

Il risultato? Gli immigrati restano manodopera necessaria ma invisibile, tollerati nei cantieri e nei campi, ma esclusi da un vero riconoscimento sociale. Il problema non è solo normativo: è la percezione stessa dell’immigrazione che deve cambiare. Finché il paese non accetterà che il futuro passa anche da qui, il ritardo non sarà solo economico, ma culturale.


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