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Quanto accaduto a Palermo risulta essere l’ennesimo fatto di cronaca che racconta un’aggressione di genere. Questo tipo di dinamica non ha infatti nulla di diverso dagli altri casi di violenza maschile contro le donne. Gli elementi caratteristici, del resto, ci sono tutti (collegialità maschile, violenza fisica, psicologica, verbale…). Eppure stavolta la vicenda ci impressiona di più, perché ad agire sono stati dei giovani.

Anzi, il “branco”, come hanno riportato diverse testate, utilizzando le stesse parole degli stupratori. Gli stessi che, come si sente raccontare ormai da giorni, si sono descritti nell’atto della violenza paragonandosi a dei cani. Ma ad agire non sono stati degli animali, bensì dei ragazzi. E ad essere violentata non è stata “una gatta”, ma una loro coetanea. Una ragazza che viene deumanizzata due volte, con il corpo e con le parole. E la cui umiliazione continua, a distanza di giorni, nei racconti che riducono la notizia a mero gossip, costringendo la vittima alla messa in piazza del proprio trauma.

Se raccontare simili vicende risulta essere estremamente delicato, sarebbe tuttavia il caso di considerare che fare informazione non significa sfruttare il dolore per ottenere visibilità. Complice della brutalità di genere c’è, come spesso accade, una stampa imprecisa. Poter leggere i dettagli delle conversazioni, vedere le immagini delle aggressioni, sentire narrazioni distorte in cui, troppo spesso, chi ne è autore si prende la libertà di esprimere un’opinione sull’entità dei fatti, rende ancora più complicato gestire le violenze. Il modo in cui si sceglie di parlare di vittime e colpevoli contribuisce ad una specifica rappresentazione delle violenze e non saperle raccontare ci rende, per questo, co-responsabili delle stesse.

Allo stesso modo, additare i colpevoli come mele marce o, ancora peggio, facendo erroneamente riferimento a concetti psichiatrici, finisce inevitabilmente per distorcere i fatti, denotando soprattutto una certa reticenza nell’ammettere l’esistenza di un problema socio-culturale di ben altra natura. In questi casi non ci sono cani, non ci sono mostri, ci sono solo uomini che provano a cancellare le donne. Il fenomeno delle aggressioni di genere è frutto di un sistema culturale in cui siamo immersi a tutti i livelli, non solo a quelli più estremi. Violenze di questo tipo vanno ben oltre l’atto sessuale, e coinvolgono il desiderio di affermazione sociale degli aggressori.

Lo stupro – bisogna ribadirlo – non c’entra nulla con il sesso, ma ha a che vedere con il potere. Nel caso di Palermo, per esempio, a fare da collante tra gli stupratori sono stati i legami parasociali per i quali l’abuso della vittima è divenuto il mezzo per dimostrarsi vicendevolmente forza. La dinamica del gruppo ha forse restituito l’illusione di poter ripartire la responsabilità dell’aggressione, condividendo così un disimpegno emotivo e morale, culminato nella scelta di immortalare quanto avvenuto. Ma la dinamica del gruppo è anche la stessa per cui, dopo la diffusione della notizia, in poche ore si sono formati vari gruppi su Telegram, con l’obiettivo di trovare il video dello stupro.

Se bisogna differenziare tra violenza agita e pregiudizio interiorizzato (o mera morbosità), riconoscendo effetti differenti tra i due, non si può pensare che le dinamiche di fondo non siano le medesime. Le violenze sessuali, gli abusi fisici, gli abusi psicologici, i femminicidi e le loro narrazioni deformate sono tutti estremi di un sistema sociale che parte da stereotipi culturali e sessisti, e che legittima l’oggettificazione della donna e l’esistenza di rapporti di subordinazione. Ecco perché l’idea, che negli ultimi giorni è stata proposta da alcuni esponenti politici, di proporre pene più aspre per gli aggressori appare doppiamente sconcertante.

Lo è nei confronti della giustizia e della morale. L’idea di eliminare la violenza con la violenza, la cosiddetta “legge del taglione”, è un meccanismo che probabilmente si innesca innanzitutto con la sfiducia nei confronti della capacità rieducativa del sistema giudiziario, ma anche sul pregiudizio, fasullo, che si tratti di azioni compiute da individui isolati, e non piuttosto estremizzazioni di fenomeni sociali radicati su più livelli di complessità.

Sebbene sia umano provare rancore, l’inasprimento delle pene – sebbene possa sembrarlo – non sarà la soluzione alla violenza di genere. La violenza non può infatti essere arginata, ma bisognerebbe educare la società al fine di estirparla. Qualsiasi altra scelta che non consideri un cambiamento culturale delle dinamiche che sono alla base di queste violenze, sarà inutile e offensiva per tutte le donne che, altrimenti, potranno ancora essere considerate delle gatte.


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