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Oltre il 50% di popolazione perduta di media, con punte che possono raggiungere anche il 60 o l’80%. Un lento declino che assume i contorni di una vera e propria desertificazione per 5mila e passa borghi italiani. L’altra faccia di un Paese che sempre più si identifica con le sue città d’arte – da Firenze a Venezia, da Roma a Napoli fino a Palermo solo per citarne alcune – ma sembra dimenticare le piccole realtà, compreso il loro potenziale turistico. Ne ha più volte parlato anche il presidente Sergio Mattarella sostenendo che da quei territori «lo Stato appare in ritirata».
I dati Istat sullo spopolamento appena citati si riferiscono al periodo 1975-2015 e sono stati elaborati nel 2018 dall’Anci che ha dedicato al fenomeno uno studio approfondito. Il trend, in ogni caso, prosegue anche se al momento mancano numeri dettagliati relativi agli ultimi sette anni. A lasciare i paesi di provincia sono soprattutto i giovani, che nelle città (o magari all’estero) trovano maggiori opportunità, non solo di formazione e lavoro ma anche sociali. Nei piccoli centri, dunque, restano soprattutto gli anziani che legano la propria sopravvivenza a quella del luogo dove sono nati e cresciuti. Ma per quanti anni ancora?
L’inverno demografico, insomma, nei borghi italiani si è già trasformato in clima polare. La pandemia ha fatto il resto facendo emergere l’irrecuperabile gap con le metropoli, da quello tecnologico ai trasporti e ai servizi.
Partono da qui, da questa emergenza, alcune iniziative volte a favore un’inversione di tendenza, volta alla ripopolazione e alla valorizzazione di un inestimabile patrimonio culturale e sociale. Fra queste c’è l’iniziativa “Case a 1 euro” che negli ultimi anni ha visto aderire decine di piccoli comuni. L’obiettivo è triplice: ripopolare i borghi, recuperare immobili in disuso (se non addirittura abbandonati), tentare di creare le condizioni per fare impresa, in particolare nel settore turistico/ricettizio.
Il progetto, come detto, è proposto da tantissimi enti locali, sparsi in tutta Italia ma con una netta preponderanza al Sud (specie in Sicilia), lì dove la desertificazione dei piccoli centri è ancor peggiore di quella del resto del Paese. “Case a 1 euro” non è un nome spot: il prezzo per l’acquisto di un’abitazione è davvero simbolico ma per essere finalizzato bisogna soddisfare una serie di requisiti richiesti dall’amministrazione comunale. L’ente locale, va detto subito, non prende parte alla compravendita – che resta un contratto tra privati, chi vende e chi acquista – ma svolge un ruolo di garanzia e controllo, volto a ottenere il recupero dell’immobile e, quindi, una miglior valorizzazione del territorio amministrato.
Il comune pubblica una lista delle case aderenti all’iniziativa e andrà contattato in prima battuta dall’interessato. Insieme alla proposta andrà presentato un progetto di ristrutturazione del bene, che – diciamolo subito – nella stragrande maggioranza dei casi verserà in pessime condizioni. L’acquirente dovrà poi sobbarcarsi le spese notarili, comprese quelle per le volture e l’accatastamento. Infine dovrà concludere i lavori nei tempi concordati. Per assicurarsi il risultato l’amministrazione locale, spesso, chiede la stipula di una polizza fideiussoria di valore compreso (solitamente) fra i mille e i 5mila euro.
Il risvolto imprenditoriale del progetto è evidente: gli immobili così acquisiti vengono quasi sempre trasformati in B&B e case vacanze accrescendo (se non addirittura creando) l’attrattività turistica dei borghi. Ulteriori informazioni sono fornite da portali specializzati come www.casea1euro.it che offre anche un elenco dei comuni aderenti. Fra cui non mancano autentiche perle.
In Sicilia, ad esempio, c’è Piazza Armerina, dove si trova una delle ville romane meglio conservate, decorata con splendidi mosaici (famosissimo quello del “primo” bikini della storia).
In Puglia troviamo Caprarica di Lecce, nel cuore del Salento e, addirittura, Taranto.
In Abruzzo ecco borghi montani come Pratola Peligna (L’Aquila) e Casoli (Chieti). Non resta che scegliere.
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