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Non basta una catastrofe naturale, per quanto indicativa e spiazzante nei suoi effetti, a determinare gli effetti reali dei cambiamenti climatici. Al netto delle correnti di pensiero, fin troppo bilanciate tra il catastrofismo e la lettura scientifica dei fatti, i dati parlano chiaro: il riscaldamento globale è un fenomeno in atto e gli obiettivi posti dalla Comunità internazionale per contrastarne la marcia richiederanno, più che probabilmente, tempistiche dilatate, ben maggiori rispetto alle scadenze segnate in agenda.

Quale sia il contributo antropico al mutare del clima è oggetto di studio e valutazione. È abbastanza evidente, però, che l’apporto dell’uomo alla variazione non convenzionale dei climi sia piuttosto rilevante. Se non altro nella misura in cui, a fronte della possibilità di impiego di energia pulita, lo scotto dei costi elevati e delle criticità sociali spinge tuttora a tenere accese le ciminiere di scarico dei combustibili fossili. Almeno in larga parte, con buona pace dei propositi di decarbonizzazione repentina. Ma c’è anche un altro aspetto che fa da termometro rispetto agli effetti dei cambiamenti climatici: i 114 milioni e oltre di persone costrette a lasciare i propri Paesi non per conseguenza diretta del clima mutato, ma perché tale variabile assume l’aspetto di un colpo da k.o.

Tale dato è contenuto nel rapporto “Un’umanità in fuga: gli effetti della crisi climatica sulle migrazioni forzate”, realizzato da Legambiente e l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unchr). Un quadro abbastanza emblematico su quanto le migrazioni siano parte integrante nel destabilizzare i tessuti sociali già ampiamente compromessi. Significativo, ad esempio, che dei 114 milioni di individui in fuga da guerre, violenze e altre forme di oppressione sociale, addirittura il 60% di loro si trovi in Paesi in cui la minaccia dei cambiamenti climatici è più rilevante e i suoi effetti decisamente più concreti.

Tra questi, Nazioni come la Siria, la Repubblica Democratica del Congo, la Somalia e l’Afghanistan, oltre che Stati del lontano Oriente come il Myanmar. In sostanza, in tali contesti, le bizzarrie del clima rappresentano il punto di non ritorno rispetto a condizioni di emergenza legate a crisi interne o altri fattori di destabilizzazione. Laddove una guerra annosa abbia portato la popolazione a sperimentare livelli di sofferenza estremi, l’arrivo di una siccità costituirebbe una sorta di colpo di grazia. Mancando il sostentamento basilare, infatti, la migrazione non sarebbe più una scelta dettata dalle condizioni geopolitiche ma una necessità senza appello.

Stando al rapporto congiunto, nell’ultimo decennio (2013-2022) sono stati in media 5,7 milioni gli sfollati per ragioni direttamente collegate alle condizioni meteorologiche. Si parla, chiaramente, di eventi estremi quali inondazioni, frane o variazioni repentine delle temperature, con conseguenze dirette sulle derrate alimentari e, quindi, sull’autosufficienza piena. Addirittura il 25% dei quasi 6 milioni di individui in oggetto, infatti, hanno subito uno sfollamento proprio in relazione a eventi meteorologici di elevata gravità.

Anche questo è un indicatore sulle sacche di sofferenza di popolazioni per le quali la vita quotidiana è già abbondantemente compromessa dalle condizioni sociali. Un’umanità letteralmente “in fuga”, come spiega il titolo del rapporto, che impone una riflessione di più ampio respiro sulle ragioni che spingono gruppi di persone a percorrere le rotte migratorie. In questo senso, il concetto di inclusività e accoglienza rientra nel più largo discorso delle emergenze climatiche, da leggere quindi come condizioni scatenanti.

Il punto di vista di Legambiente è chiaro: «È essenziale per aiutare i governi ad affrontare una sfida globale così urgente come è quella della crisi climatica, che ha impatti a lungo termine sullo sviluppo sostenibile di ogni Paese». L’associazione parla chiaramente di «grandi sfide» a fronte delle quali occorre «recuperare il senso della cooperazione e del dialogo a livello globale, mettendolo in relazione con l’impegno di solidarietà che la società civile, associazioni, volontari e volontarie svolgono quotidianamente a livello locale cercando di costruire insieme spiragli di un mondo migliore per un futuro di pace». Tanto per ribadire come le politiche ambientali non siano scollegate dai contesti più prossimi alla vita quotidiana

Agire in direzione di una prossimità reciproca tra individui significa anche adottare politiche maggiormente incisive rispetto alla tutela dei paesaggi e alla preservazione delle condizioni atmosferiche tipiche dei luoghi in cui si vive. Un obiettivo fissato da tempo, vista la marcia del rialzo medio della temperatura globale (circa 3°C entro fine secolo) ma, a conti fatti, ancora lontano dall’essere raggiunto. Anche per colpa di quelle instabilità politiche che, a ben vedere, sono responsabili in buona misura del freno a mano tirato sulle strategie di sostenibilità. E intanto il 2030, data limite per i primi risultati dell’Agenda europea, è sempre più vicino…


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