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Sono passati tre anni da quando, negli ospedali di Wuhan, in Cina iniziarono a manifestarsi i primi casi di una “polmonite atipica”, e due anni e undici mesi, dal momento in cui l’agente responsabile di quei casi fu identificato per la prima volta. Era un “nuovo” coronavirus la cui sequenza genomica veniva svelata al mondo grazie al lavoro e al coraggio di uno scienziato di nome Yong-Zhen Zhang e dei suoi colleghi di Shanghai e Sydney, in Australia. Il virus era “nuovo” nel senso che era la prima volta che veniva confermata la sua presenza in soggetti umani. Un mese dopo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe attribuito al virus il nome SARS-CoV-2, e la malattia che esso causava, dal quel momento, sarebbe stata conosciuta come Covid-19. Si doveva attendere un altro mese prima che l’OMS dichiarasse ufficialmente ciò di cui gli esperti erano già convinti: il Covid-19 era da considerarsi una pandemia.

Ed ancora rimane una pandemia. Il virus è ovunque, continua ancora a trasmettersi velocemente e in maniera invisibile da persona a persona, provoca gravi disfunzioni nei soggetti sensibili, ed è causa di decesso, circa 1.500 morti ogni giorno nel mondo. Se questo non è una “pandemia”, staremmo parlando d’altro. La pandemia non è finita. Il virus sarebbe entrato nella sua fase “endemica”, una condizione presumibilmente meno grave e allarmante della pandemia. Ma cosa significa per un virus diventare “endemico”? Significa che quella cosa che ritenevamo pericolosa si è stabilizzata in maniera permanente in una particolare area, dove i focolai della malattia rimarranno continui o ricorrenti. Questo dovrebbe forse rassicurarci in riferimento al Covid-19? Per niente. Quale sarà la “particolare area” di endemicità del Covid-19? La malaria, che non è una malattia virale ma un killer di antica origine, è endemica dell’Africa subsahariana ed è ancora responsabile di mezzo milione di morti ogni anno. Bisogna agire per contenerlo. Possiamo limitarne gli spazi d’azione, come abbiamo fatto per la poliomielite, il morbillo, il tetano e di altri formidabili nemici virali.

Ma il mondo si sta preparando alla prossima minaccia pandemica? In che modo lo sta facendo? La scienza è impegnata e gli Stati devono investire nella sanità. E’ urgente rafforzare le capacità di ogni nazione – a cominciare dall’Italia, che ha tra l’altro, una delle popolazioni più vecchie al mondo – in materia di assistenza sanitaria universale e fare in modo che la comunità internazionale si adoperi per formare operatori sanitari e ricercatori nei paesi a basso e medio reddito; serve rafforzare le reti internazionali in grado di identificare gli agenti patogeni e fare operazione di sorveglianza sulle epidemie esistenti in maniera capillare, affinché eventuali eventi sanitari preoccupanti possano essere precocemente individuati e contenuti; e dobbiamo essere più vigili soprattutto nelle aree ad alto rischio in cui la presenza dell’uomo rischia di avere effetti dirompenti sugli ecosistemi naturali, compresa la fauna selvatica e i virus che essi trasportano.

L’Italia e l’Europa lo stanno già facendo. Il nostro Paese ha predisposto una serie di misure volte ad assicurare servizi sanitari sul territorio, a rafforzare e ammodernare i presidi ospedalieri, ad accrescere le dotazioni tecnologiche dei nosocomi, a finanziare le attività di formazione professionale e di ricerca applicata. Per farlo utilizza il Piano nazionale di ripresa e resilienza che utilizza i fondi ottenuti dall’Unione Europea attraverso il Next Generation EU (meglio noto in Italia con i nomi informali di Recovery Fund o Recovery Plan, è un fondo dal valore di 750 miliardi di euro approvato nel luglio del 2020 dal Consiglio europeo al fine di sostenere gli Stati membri colpiti dalla pandemia di Covid-19).

Nel Pnrr le misure di intervento sono 24 e 2 le riforme (vedi infografica). Secondo i dati e il monitoraggio di Openpolis (una fondazione indipendente e senza scopo di lucro che promuove progetti per l’accesso alle informazioni pubbliche, la trasparenza e la partecipazione democratica), nel campo della sanità vengono mobilitati risorse per complessivi 15,73 miliardi di euro, di cui 15,10 miliardi di prestiti e 624,14 di sovvenzioni. A queste somme si devono aggiungere altri 2,39 miliardi del fondo complementare, che sono fondi statali integrativi. Come sta andando l’attuazione delle misure? Mentre le riforme sono state completate, sugli investimenti resta molta strada da fare.

La percentuale di completamento effettiva al 24 gennaio è del 34,35% e dovrebbe salire al 44,73% entro la fine del primo trimestre dell’anno. Le aree di intervento sono quattro, ma le percentuali di spesa per ciascuna di esse sono piuttosto basse, almeno finora. Così, ad esempio, l’area della Medicina territoriale dispone di 7,10 miliardi, ma ne ha impegnati il 39,20%, l’Ammodernamento tecnologico ha una dote di 5,72 mld (ma la spesa ristagna al 5,62%), quanto agli Ospedali, sono disponibili 3,09 mld (ma la spesa non supera il 17,05%). Infine, la Ricerca e formazione in ambito medico mette sul piatto 2,20 mld (ma anche qui la percentuale della spesa è al 12,14%). E l’Europa? Nei giorni scorsi la Commissione Europea ha pubblicato la sua nuova strategia per la salute globale. Un documento importante che, a oltre dieci anni dalla stesura della precedente versione, ha preso in considerazione alcuni spunti proposti da organizzazioni del settore, mondo accademico e società civile attraverso la recente consultazione pubblica. In particolare, le autorità europee hanno recepito gli obiettivi di sviluppo sostenibile, tra cui la copertura sanitaria universale e l’inserimento della componente sanitaria in tutte le decisioni politiche europee (“health in all policies”), richiesti dalla grande maggioranza dei contributi (76%).

Ma se da un lato la Commissione si è mostrata ricettiva su alcuni temi, altri importanti contributi sembrano invece siano stati trascurati. È il caso ad esempio della richiesta di maggiore attenzione agli ostacoli che il settore farmaceutico a volte pone al raggiungimento degli obiettivi di salute pubblica, con i suoi conflitti di interesse e la storica tendenza al “disease mongering”). Oppure della domanda di maggior trasparenza e responsabilità da parte delle autorità pubbliche, concetto espresso dalla maggior parte dei partecipanti alla consultazione e aspetto centrale delle recenti inchieste sull’operato della Commissione durante la pandemia.

Altro aspetto affrontato in modo apparentemente parziale è quello della prevenzione. Analizzata soprattutto in riferimento alle malattie infettive, la prevenzione dovrebbe in realtà essere indirizzata in primis alla gestione (a livello politico e individuale) delle crisi sanitarie globali più persistenti. Come ad esempio le malattie non comunicabili che, per numero di casi e di decessi (circa 41 milioni all’anno), rappresentano da tempo un fenomeno particolarmente rilevante. Oppure l’inattività fisica, alla base dell’eccesso ponderale il cui impatto economico è stimato attorno al 2,2% del Pil a livello globale ed è ancora oggi beneficiario di una quota davvero contenuta di spesa pubblica (0,8% del Pil) a livello UE.

Infine, la Commissione non sembra aver dato sufficiente risalto a due settori della medicina tanto promettenti quanto lontani dall’aver ricevuto il supporto finanziario/politico di cui necessitano. In particolare (a) la medicina di precisione, che permette di curare il paziente in base alle sue caratteristiche individuali anziché utilizzare un approccio uguale per tutti; (b) la medicina funzionale, che applica cure calibrate sui fenomeni fisiologici e biochimici più che sul funzionamento del singolo apparato. Alla frontiera della ricerca medica, queste branche appaiono fondamentali anche per affrontare a monte una delle più grandi sfide dei prossimi anni, cioè la antibiotico-resistenza, fenomeno con un impatto economico stimato tra 300 e 1.000 miliardi di dollari all’anno a partire dal prossimo decennio.


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