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Giovani e Covid: è come una guerra

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«La metafora più spesso richiamata dai giovani in terapia per descrivere come vivono questo periodo è quella della guerra. Si sentono come sotto un bombardamento, avviliti fra sentimenti di impotenza e di rabbia depressa». Sarà una generazione di reduci, dunque, quella che uscirà dalla pandemia. Ma fare previsioni su quale ruolo giocherà nella costruzione del mondo futuro è la «domanda delle domande» secondo Chiara Santaniello, psicoterapeuta al quarto anno di formazione, che privatamente segue il travaglio interiore di dieci ragazzi fra i 20 e i 30 anni durante la più grave crisi del secolo.

I negoziati di pace di questo ipotetico conflitto, per i suoi assistiti, sono rappresentati «dai vaccini, che alcuni di loro hanno già fatto per motivi professionali o di salute. Mi dicono: ‘ la guerra sta finendo, vediamo finalmente un orizzonte davanti a noi’. I sieri sono per loro diventati il simbolo della rinascita al termine di un’era drammatica».

Intanto la battaglia prosegue e le cicatrici emotive si fanno sempre più profonde. «Concordo con gli studi secondo cui i giovani accusano sintomi associabili a quello del disturbo post traumatico da stress – spiega – Ma nella mia esperienza posso testimoniare che alcune manifestazioni sono simili a quelle successive a un lutto da elaborare. A essere morto è il mondo che conoscevano, fatto soprattutto di fisicità, intesa come possibilità di toccare materialmente amici e parenti. Questo è l’aspetto che li annebbia di più».  Problemi del sonno, dell’alimentazione e irritabilità sono i disturbi più spesso riscontrati da Santianiello.

Una sensazione di generale malessere che può trovare sfogo nella trasgressione delle restrizioni anti Covid, «che non vengono capite e sono quindi percepite come ingiuste e imposte. Non va, dimenticato, però l’esempio positivo fornito dagli adulti, personaggi pubblici compresi. Se io, giovane, vedo le immagini di gente in piazza contro le mascherine e le limitazioni, non comprendendo che si tratta di misure adottate per fronteggiare la pandemia, come faccio a non esserne coinvolto?». Ci sono poi «sentimenti di rabbia, frustrazione e di noia». Che gravano anche sugli episodi di violenza cui troppo assistiamo, a partire dalle maxi risse organizzate sui social. Le piattaforme online, afferma, «condizionano il pensiero, sollecitando una fruizione immediata di ciò che viene postato senza dare il tempo di rifletterci sopra. Ciò innesca una sorta di contagio sociale: vedo un gruppo di ragazzi che dà sfogo alla mia stessa rabbia scontrandosi, mi rispecchio in loro e faccio come loro».

Di fondo c’è una grande solitudine, aggravata anche dall’assenza della scuola in presenza. «Molti ragazzi – sottolinea – seguono la Dad sullo smartphone. Assistere a una lezione, in sostanza, è come scrollare Instagram. Sono anche le modalità di questa formula a didattica a stimolare tale condotta. Uno studente non può essere passivizzato, limitandosi a fornirgli slide da visionare, andrebbe coinvolto, altrimenti ti ripaga con il disinteresse». Anche le famiglie, conclude, «dovrebbero fare di più, sollecitando il mantenimento di una routine adatta al contesto. Vestirsi, pettinarsi, farsi la barba anche quando si è casa aiuta a non disperdere la cura di sé».


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