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Era maggio. L’Italia si apprestava gradualmente ad abbandonare il primo lockdown. Una ricerca comparativa diretta dall’Università di Oxford suonò come un campanello d’allarme. Ansia, noia, depressione, insofferenza per i limiti sociali si iniziavano ad insinuare tra i giovani, soprattutto nella fascia d’età tra i 18 e 29 anni, così come in quella di adulti tra i 30 e i 44 anni.
«Le percentuali sono schizzate mediamente di venti punti percentuali, segno che questa popolazione è stata colpita duramente dalla segregazione», commentava il prof. Gianpiero Dalla Zuanna, curatore insieme alla prof.ssa Margherita Silan della parte italiana di questa ricerca. Nel corso dei mesi, poi, si sono susseguiti allarmi analoghi lanciati da psicologi e terapeuti: il disagio mentale dei giovani è cresciuto durante il periodo di restrizioni.
Le chiusure in casa, il divieto di incontrare gli amici, la didattica a distanza non hanno certo giovato. La presidente dell’Invalsi, Anna Maria Ajello, ha parlato di «buchi di apprendimento» tra gli studenti. Qualcuno ha provato a sfogare il proprio disagio degenerando nei comportamenti: le cronache attestano un aumento delle risse, in Italia come di recente anche in Francia, e gli esperti parlano di una crescita del consumo di alcolici. Alcuni genitori disperati, come ha raccontato due mesi fa il “Quotidiano del Sud”, si sono persino rivolti a investigatori privati.
Ma ecco giungere un’indagine condotta tra studenti universitari a Pisa, Firenze, Torino, Genova e Messina che dimostra come l’attività fisica sia un efficace deterrente al disagio mentale dei giovani. Se durante il lockdown le persone avessero potuto mantenere i consueti livelli di attività motoria, «si sarebbero potuti evitare fino al 21% di casi gravi di ansia o depressione».
Alla ricerca, pubblicata sulla rivista “Plos One”, hanno aderito 18.120 tra studenti, docenti e personale delle università partecipanti. Lo studio riferisce che «elevati livelli di ansia o depressione erano presenti con maggiore frequenza fra gli studenti, fra i partecipanti con un basso reddito e fra coloro che, durante il lockdown, hanno interrotto la pratica dell’attività fisica».
Chi durante il confinamento è riuscito a continuare l’attività fisica, ha invece ridotto del 20% il rischio di soffrire di ansia e depressione. Invece chi ha interrotto la pratica ha avuto un rischio maggiore del 50%. I ricercatori hanno così stimato che, se durante il lockdown del 2020 non fossero state ridotte le possibilità di fare attività fisica, si sarebbe potuto evitare fino al 21% dei casi gravi di ansia e depressione in meno.
«Il risultato», hanno sottolineato gli esperti, «suggerisce che durante la pandemia la promozione della pratica dell’attività fisica in condizioni di sicurezza dovrebbe essere una priorità di salute pubblica per il contenimento dell’inevitabile aumento del disagio psicologico associato all’insicurezza socio-economica della popolazione». Ora che mezza Italia si trova in zona rossa, magari qualche amministratore locale terrà conto di questo studio prima di chiudere i parchi.
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