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LA PRIMA linea della guerra al coronavirus corre di pronto soccorso in pronto soccorso sino a formare un’unica grande trincea. Ricordano, in effetti, gli scenari bellici le immagini che quotidianamente arrivano dagli hub della medicina d’urgenza di tutta Italia: ambulanze in coda, corsie piene, urla, rantoli e medici e infermieri a correre da una branda all’altra. Una crisi sistemica che non si spiega solo con la psicosi generata dalla pandemia ma, soprattutto, con l’effetto domino innescato dalle carenze della rete sanitaria distribuita sul territorio.
«Ci sono almeno due fattori che pesano sullo stress dei pronto soccorso, entrambi frutto del buco assistenziale presente sul territorio» spiega al Quotidiano del Sud il dott. Mario Guarino, segretario nazionale della Società nazionale medicina di emergenza-urgenza (Simeu) e responsabile della Uosd Medicina e chirurgia di accettazione e di urgenza del Cto di Napoli. Questo gap, prosegue, «deriva dal fatto che medici di famiglia e guardie mediche non riescono ad assicurare la continuità assistenziale, a visitare i malati a casa o a sentirli telefonicamente. Così basta un sintomo lieve che potrebbe essere segno di Covid, come una banale diarrea, per portare il paziente ad accedere in pronto soccorso. Vale per i giovani e vale per chi, invece, presenta delle fragilità, come gli oncologici che dovrebbero essere curati a casa perché entrare in ospedale li espone al rischio contagio».
C’è poi il problema dei positivi che «non avendo avuto un’adeguata assistenza a domicilio al primo peggioramento della sintomatologia si recano in pronto soccorso, arrivando addirittura a negare di aver contratto il virus pur di accedere». Tutto sbagliato. «Il pronto soccorso – argomenta Guarino – dovrebbe essere il piano B, l’extrema ratio in caso di un vero peggioramento. Prima di arrivarci al paziente andrebbero assicurate cure a domicilio con un contributo determinante della tecnologia. Penso agli ecografi portatili che consentono di fare velocemente un’eco del torace per verificare l’eventuale aggravamento delle condizioni di un paucisintomatico. Ma anche al point of care, grazie al quale si possono fare diversi esami a casa, fra cui l’emogas, fondamentale per verificare il livello di ossigenazione del sangue».
Senza contare la possibilità di «fare direttamente nelle abitazioni anche i tamponi antigenici, in modo da poter decidere nel giro di 20 minuti se ospedalizzare il malato». La rete dei medici di famiglia, insomma, «andava riorganizzata. Queste figure oggi pagano un’eccessiva burocratizzazione. Come possono arrivare ad assistere millecinquecento pazienti e, nel contempo, inserire i dati nelle piattaforme e stilare i piani terapeutici? Sono attività che hanno schiacciato la loro dignità professionale». La cattiva gestione dei medici di base è, però, solo una parte di un problema più grande che arriva a coinvolgere anche «gli specialisti degli ambulatori Asl» e il 118 che «facendo subito il tampone antigenico potrebbe indirizzare il positivo nell’ospedale più adatto alle sue esigenze».
L’immagine richiamata da Guarino è quella di una catena che parte dall’assistenza territoriale e arriva sino alle rianimazioni. Al livello di ciascun anello deve essere assicurato «un lavoro organico e globale» per non mandare in tilt il sistema. «Si parla spesso, anche troppo, di terapie intensive – fa notare – poco delle subintensive e dei posti letto ordinari a bassa intensità di cura gestiti dalla medicina d’urgenza. Se in questa seconda ondata meno persone finiscono in rianimazione è perché esiste una rete che trattando il paziente per tempo cerca di evitarlo. Se il territorio funzionasse i paucisintomatici non arriverebbero in pronto soccorso e la situazione potrebbe ancora migliorare». Anche perché, parallelamente, di cure necessita anche chi non ha il Covid ma magari ha avuto un incidente stradale, un infarto o un ictus. «I nostri spazi devono adattarsi agli accessi – sottolinea – perché le porte del pronto soccorso sono sempre aperte e tutti hanno diritto all’assistenza. Durante il lockdown avevamo meno incidenti per via della minore mobilità ma anche meno ingressi per patologie cardiovascolari. Chi aveva un malore magari non veniva perché temeva di potersi contagiare. È un problema che pagheremo in futuro. Un infarto che si autorisolve sviluppa complicanze croniche come gli scompensi cardiaci e oggi ne stiamo già vedendo tantissime».
Sulla strada maestra da seguire per ridare fiato agli ospedali, Guarino non ha dubbi. «Serve un altro lockdown nazionale – afferma – magari breve ma serrato, perché le differenziazioni territoriali non riducono sufficientemente la mobilità che è il vero motore dei contagi. È giusto ragionare sugli scenari economici ma l’economia non può compromettere il diritto alla salute. Oggi c’è un unico grande focolaio che va spento in tutta Italia, altrimenti non si va da nessuna parte».
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